Il realismo capitalista secondo Mark Fisher

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25 Gennaio 2019

Mark Fisher, “Realismo capitalista”, Nero Edizioni, Roma 2018

 

Nel leggere il dolente libro di Mark Fisher “Realismo capitalista” non si ha difficoltà a convenire che il capitalismo è davvero una brutta bestia. “Intus et in cute” ci colpisce questo diabolico sistema economico dal quale non siamo riusciti dopo secoli di efferato dominio a liberarci, a “fuoriuscire” da esso come si diceva una volta, a “superarlo” dialetticamente ed hegelianamente, nonostante che qualche  esperimento alternativo finito nel disastro ci sia stato. Ricordiamo il “Keine experimenten sozialistichen” che si leggeva in ogni angolo della ex DDR dopo la caduta del muro. “Basta con gli esperimenti socialisti”. (A me capitò di leggerlo nel cartello deposto sul cruscotto di una vecchia Trabant abbandonata in una strada di Amburgo nel 1990). Qualcuno dice che ci si potrebbe riprovare, però. Tentare un nuovo inizio, perché non era né comunismo né socialismo quello crollato nel 1989 oltre la cortina di ferro, ma qualcos’altro che non si ama o non si sa definire nel dettaglio.

Per intanto, il capitalismo, dice Fisher, con quella sentenza cinica della  Thatcher: “TINA, There Is No Alternative”, ci occlude ogni speranza alternativa alla sua morsa stritolante. Vige una intimazione/inibizione latente: « è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo» secondo una formula di volta in volta attribuita a  Fredric Jameson o Slavoj Žižek e ripresa in esordio da Fisher. Impossibile pensare un modello politico-economico realmente alternativo: siamo intrappolati in un sistema  che crea la sua stessa inevitabilità. Subdolo, proteiforme e sfuggente al punto  di prevedere dentro di sé forme di pensiero anticapitalistico, di suscitarle, talvolta blandirle, per poi neutralizzarle. Qualsiasi gesto alternativo o indipendente, che sia il situazionismo o il gruppo rock  più indie, viene subito ricoperto e narcotizzato dalla glassa capitalista, il denaro. Alla fine «il capitalismo semplicemente occupa tutto l’orizzonte del pensabile». Occorre invece elaborare un’immagine oppositiva ci si dice e ci viene detto. Anche se l’impresa appare ardua. «Rivendicare un’azione politica vera significa prima di tutto accettare di essere finiti nello spietato tritacarne del Capitale al livello del desiderio. Declassando il male e l’ignoranza a dei fantasmatici “Altri” disconosciamo la nostra complicità col sistema planetario dell’oppressione. Quello che dobbiamo tenere a mente, è sia che il capitalismo è una struttura impersonale e iperastratta, sia che questa struttura non esisterebbe senza la nostra cooperazione». In queste ambasce, in cui più cerchiamo di liberarci più restiamo impaniati, «il capitalismo è quel che resta quando ogni ideale è collassato allo stato di elaborazione simbolica o rituale: il risultato è un consumatore-spettatore che arranca tra ruderi e rovine».

Il capitalismo, dice Fisher,  è  come o peggio del “realismo socialista”, grigio, oppressivo e ineluttabile; ci soffoca con la sua burocrazia opprimente; ci porta anche alla depressione e al suicidio. Sia la salute mentale che i disordini affettivi infatti hanno una precisa causa: il Capitale, la vera fonte di infelicità individuale e collettiva. È un sistema, quello capitalistico,  sorretto da un “individualismo metodologico” che soffoca ogni istanza collettiva. Scrive allarmato Fisher: «I sintomi del fallimento di una tale visione del mondo sono ovunque: in una sfera sociale disintegrata al punto che è diventato un fatto ordinario leggere di adolescenti che si sparano a vicenda, in una realtà in cui gli ospedali incubano superbatteri».

Se il quadro è quello descrittoci da Fisher – e così deve essere visto che se non tutti la maggior parte di noi in questo mondo sazio e disperato siamo moderatamente oppressi e infelici, consumatori coatti e dipsomani ispettriti -, non possiamo fare altro che sentire come rivolta a noi, gementi sotto il tallone capitalista, la battuta che Beckett rivolge agli uomini in quanto tali, in quanto esseri umani, in “Finale di partita”: «Ma riflettete, riflettete, ormai siete al mondo, non c’è più rimedio!».

Ci si potrebbe chiedere però, in un disperato tentativo di lucidità, se è la condizione umana che non parrebbe avere vie  di uscita, “assurda” come sembra a molti, o se è piuttosto il “sistema” in cui ci siamo imprigionati che ci rende infelici, tale che, rimosso o superato questo involucro, l’uomo esca dal regno della necessità per approdare nel regno della libertà.  Forse agiscono entrambe le cause di disagio, quella generale e quella specifica.  Qualche sforzo di corretta attribuzione degli effetti alle cause andrebbe fatta però. Ma per Fisher non ci sono dubbi: è il Capitale spietato e predatorio il responsabile. Tutto va messo in “conto capitale”, del capitalismo, anche gli adolescenti che si sparano e i biechi esperimenti da “evil scientist” degli ospedali (e si suppone, dei medici) che invece di curare la gente sperimentano forme di annientamento di massa con l’incubazione di superbatteri come in un romanzo science-fiction.

Fisher non è un sognatore né tanto meno un affranto intellettuale depresso: è un lucido spinoziano, parrebbe. Scrive: «La libertà, dice Spinoza, può essere conquistata solo nel momento in cui apprendiamo le cause reali delle nostre azioni, solo cioè quando siamo in grado di accantonare le “passioni tristi” che ci intossicano e ci ipnotizzano». Non ridere, non piangere, non detestare,  ma capire. Capire che la causa è quella: il Capitale, il Capitalismo.

Fisher prospetta anche una soluzione che noi stolti avevamo accantonato, quella classica: « l’obiettivo di una sinistra genuinamente nuova non è la conquista dello Stato, ma la subordinazione dello Stato alla volontà generale». Già. Funzionerà? È la vecchia formula di Rousseau dopotutto. Non ci avevamo più pensato: è tempo di nutrire ancora qualche speranza. Certo, risorge però subito la vecchia domanda di Milovan Gilas: chi amministrerà i desiderata della volontà generale e la ritrovata felicità diffusa? Una “nuova classe” (così si intitolava il libro di Gilas) di apparatcik e grigi burocrati inamovibili e gelidi come stoccafissi? Ricordate Cernenko? Brividi. No, ne bis in idem.

Per intanto  “Micromega” esalta nel nuovo numero i libri di Maria Mazzuccato, che proprio l’intervento rieliquibratore dello Stato invoca. Si tenta un rilancio di vecchie ricette: la soccorrevole mano pubblica contro la spietata o imbelle  “mano invisibile” smithiana. Proviamo a reintegrare l’esplosa sfera sociale: potrebbero finire le pistolettate fra adolescenti e gli esperimenti diabolici negli ospedali. Perché no?

***
Il dibattito sullo sorte del capitalismo, sulla necessità è ineluttabilità del suo superamento è ormai una sorta di “philosophia perennis” nella quale solo uno stolto può metterci bocca con la pretesa di  sciogliere i nodi più intricati. Troppo complessa la questione per la nostra mente limitata, ed è già difficile tentare una attenta ricognizione di tutte le voci  che si sono intrecciate sulle tesi che ne peroravano la fuoriuscita. Lo stesso Fisher ha abbandonato il campo, anche con il proprio personale annientamento, drammaticamente e disperatamente,  buttando all’aria il suo (e nostro) cubo di Rubrick.

A noi resta qualche domanda piccola piccola: tutto è capitalismo nel nostro mondo capitalista e anche in quello non capitalista? E inoltre: di quale capitalismo  parliamo quando parliamo di capitalismo?

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Nel mese di dicembre abbiamo appena finito di rievocare il quarantennale delle riforme epocali di Deng Xiaoping in Cina, fino a poco prima un paese comunista o sedicente tale. Ho intercettato in quel mese (18/12/2018) su “Rainews24” un’intervista a un redattore del quotidiano il “Manifesto” di cui non ricordo il nome. Ebbene questo giornalista ha raccontato passo passo cosa avvenne in Cina nel 1978. Cosa c’era prima e cosa ci fu dopo. Ma lo ha fatto cronachisticamente, in maniera asciutta e anodina, come un cronista anonimo del Dugento. Ma come? Ma possibile? Mi sono chiesto allibito. È un redattore di un giornale che si definisce “Quotidiano comunista” dopotutto, non un passante della storia,  non può pertanto limitarsi a mettere cronologicamente i fatti in successione senza darcene la  logica;  dovrebbe azzardare quantomeno una interpretazione. Risponderci: i cinesi hanno rinunciato definitivamente al comunismo che il suo quotidiano ancora perora? Hanno rinunciato a quel comunismo fiabesco e contadino al quale hanno creduto molti giovani occidentali nel ’68? O sono entrati anche loro in quel sistema diabolico, il capitalismo, in cui i giovani si prendono a pistolettate e si conducono esperimenti diabolici negli ospedali come lamentato da Fisher?  Il loro sistema economico è comunista o  è capitalista?, o le due cose assieme, ove mai ciò fosse possibile? Un “ma anche” che coniuga  gli opposti?

Poi ho allargato l’orizzonte e le mie domande si sono moltiplicate. E in Russia? Cosa c’è in Russia in questo momento? Il capitalismo, o persiste il “socialismo reale” sotto mentite spoglie? Una forma perversa di capitalismo sotto le spoglie dell’eterno “dispotismo orientale”, come quello cinese dunque ma senza la tensione confuciana ma con l’eterno cialtronismo burocratico-zarista descritto da Gogol?  Quando si parla di miliardari russi – le cronache ne sono piene -, di che tipo di miliardari parliamo? Di gente con le tasche piene di quattrini accumulati alla maniera dei “rober baron” yankee, di Rockefeller e quelli di “Forbes”? Insomma:  i russi sono ancora di là o sono venuti di qua? Hanno sposato il nostro sistema capitalista che ci “vuole soli e divisi” come scrive Paolo Mossetti,  “sta facendo diventare tutti scemi”  come si lamenta la vedova di Tiziano Terzani o che “ci sta distruggendo la vita” come afferma Paul Manson autore di “Postcapitalismo” in recenti  interviste all’Inkiesta?  O sono rimasti felicemente indenni dal nostro “realismo capitalista”? E, allargando ancora il quadro, quelli degli Emirati Arabi, ricchi sfondati di petrodollari che hanno costruito città alla “Metropolis” di Fritz Lang nel deserto e si sono comprati Porta Nuova a Milano sono capitalisti o cosa? Stanno anche loro dentro la “funzione Fisher” di cui parla il prefatore di “Realismo capitalista”? O stanno semplicemente scoprendo che il TINA vale anche per loro? E tutti i popoli del mondo che convergono da noi per condividere con noi, sicuramente, il nostro “disagio della civiltà”? TINA anche per loro?

Leggendo Fisher non siamo molto fuori dall’ambiente argomentativo a noi italiani noto fin dai tempi di “Verifica dei poteri” di Franco Fortini. Basta arrampicarsi sugli scaffali alti della libreria di casa. Ma allora occorre riprendere anche le repliche “realiste” di Bobbio che sottolineava, nonostante da più parti si invocasse o si preconizzasse la fine del capitalismo, che essa non era proprio alle viste. Toni Negri ha scritto di più o di peggio in “Impero” parlando di nuova produzione “biopolitica”. Bifo lamenta, non da ora, lo schiacciamento e la compressione da parte dell’efficienza competitiva, la depressione, e talune volte invece che implosione, l’esplosione del sistema.

Appare evidente che ciò che si propone, lato “funzione Fisher” è –  non si sa bene come però  -, un tornare indietro e cambiare strada. E se provassimo invece ad andare avanti e cambiare direzione?

TAG: Capitalismo, libri, Mark Fisher
CAT: Filosofia

Un commento

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  1. federico.gnech 5 anni fa

    Caro Alfio, ti ringrazio per questa bella recensione-riflessione che mi esenta dal comprare (e dal leggere) il libro di Fisher. L’unica ragione per farlo, mi ero detto, nonostante l’entusiasmo di un amico libraio, sarebbe tentare di capire come ragiona un marxista del 2019. Però a me non interessa capire come ragiona un marxista nel 2019, e non ho mai finito di leggere il Capitale – che peraltro rimane una lettura assai più interessante e formativa – specie per un semicolto come me. Ciao.

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