Lo smarrimento dell’uomo moderno
Che vivere sia una cosa seria (res severa, ammonivano gli antichi) è un’acquisizione permanente della nostra vita adulta. I più sfortunati a dire il vero hanno la percezione di questa serietà ancor prima, fin dalla più tenera età, non appena entrati nel ballo intrecciato dell’esistenza. Ma il tema di questo libro di cui il titolo è una traduzione “facilitata” italiana (l’originale reca nientemeno che “Modernity. Pluralism and the Crisis of Meaning. The Orientation of Modern Man”) è un densissimo saggio sullo smarrimento dell’uomo moderno in quanto genere umano e non singolo individuo. In questo volumetto il tema dello smarrimento, della “perdita di senso”, viene trattato dal punto di vista sociologico, o anche di filosofia antropologica, e gli autori ritengono, alla fine, di fornirci anche qualche via di uscita “terapeutica”, di cui ci avvantaggeremmo anche come singoli. Rimane sotto traccia che quando si parla di “uomo” e “umanità” i riferimenti impliciti sottendono l’uomo moderno occidentale, o quello “modernizzato” in generale.
Il punto di avvio è che la civiltà in cui vivono principalmente gli occidentali, segnata dalla cosiddetta “modernità” è connotata da alcune paroline che fanno da controcanto alle magnifiche sorti e progressive e sono i marcatori di un disagio collettivo che procede pari passo con la modernizzazione; due paroline a molti note: alienazione e anomia, ossia lo spossessamento della propria essenza umana e la perdita di un quadro normativo e valoriale stabile di riferimento. Due termini emersi dalle diagnosi di Marx e di Durkheim. Ora, dicono gli autori Berger e Luckmann, non c’è scampo a questi “disagi” o meglio non ci sono vie di uscita risolutive a questi malesseri, né si può sortire da essi con le proposte estreme alternative più note che vedremo più avanti, ma possiamo al massimo affievolirli con alcuni strumenti suggeriti in finale di libro, che non mancherò di dire.
Se la modernizzazione è la radicale trasformazione delle condizioni esterne dell’esistenza umana, la tecnologia, fondata sulle scienze che ebbero la loro svolta a partire dal ‘600, ne è il motore. A ciò si aggiunse la radicale trasformazione degli assetti produttivi con l’avvento della produzione di tipo capitalistico. Il risultato è stato che l’irruzione della modernità, di questa modernità, è venuta a sconvolgere l’idillio dei “piccoli mondi della vita” precedente, ove gli individui trovavano in “comunità di vita” coese e “scontate” l’indirizzo della propria esistenza in “comunità di senso” dotate di sistemi simbolici unitari e di stabili interpretazioni della realtà: un mondo che ignorava anomia e alienazione, immerso com’era in istituzioni forti e immutabili, fornitrici di senso per il singolo e le moltitudini. La modernità ha migliorato con il benessere diffuso le condizioni materiali dell’esistenza ma è venuta a recare disorientamento spirituale; è con il suo avvento che i sistemi di valore e gli schemi di interpretazione antichi vengono “decanonizzati” portando con ciò gli inneschi di possibili “crisi di senso” che possono sfociare in vere e proprie crisi sistemiche, in “crisi pandemiche di senso”.
Prima dell’avvento della modernità, “comunità di vita” e “comunità di senso” erano tutt’uno. È naturale che in quel mondo fossero le religioni, o meglio “la” religione, quella cristiana, a mettere in armonia il mondo, gli uomini e il proprio Dio. La religione e le chiese in quanto produttrici di certezze “scontate” (avevano una risposta per tutto, dalla culla alla bara) erano le fornitrici di schemi unitari e di “senso”, anzi col tempo avevano accumulato vere e proprie “riserve” storiche di senso. Poi è successo che anche questo mondo unitario cristiano si è rotto sia con la riforma protestante da un lato sia con i processi di modernizzazione di cui si è detto prima, ed è successo che, seppur si siano insediate al posto delle chiese altre aggregazioni unitarie di rappresentazioni mentali, le ideologie, fornitrici a loro volta di proprie certezze e di proprio senso, queste non siano riuscite che parzialmente ad arginare l’erosione e talora lo smottamento delle certezze del mondo che le aveva precedute.
Non c’è più religione. Secolarizzazione e pluralismo
A questo punto della mia esposizione entro nel vivo dell’analisi condotta dai due studiosi. Si potrebbe pensare che se la religione e le chiese sono state fino a poco tempo fa le “casseforti” depositarie delle riserve storiche di senso, ne discende, di contro, che sia stato proprio il noto processo di “secolarizzazione”, ossia l’espropriazione progressiva della centralità di quelle istituzioni e il conseguente allentamento della loro “presa” sulle coscienze, il vero responsabile della perdita di influenza dei sistemi religiosi sulle società. Berger e Luckmann non sono d’accordo con tale tesi o meglio ritengono che possa trovare parziale accoglimento solo nell’Europa occidentale (non in Russia, per intanto), in quell’Europa dove è apparso “l’uomo moderno” che reputa di poter fare a meno della religione nella vita privata come in quella sociale. La spiegazione della secolarizzazione non funziona neanche per gli Stati Uniti per esempio ove non si registra un particolare affievolimento delle originarie ispirazioni religiose di fondo, né nel Sud America, dove spira impetuoso il vento del protestantesimo pentacostale e ancor meno in tutto il medio e lontano oriente ove le masse diseredate fremono di islam.
E dunque? La strutturale “crisi di senso” della modernità è dovuta secondo Berger e Luckmann più che alla secolarizzazione al pluralismo. Ossia a quel processo multipolare suscitato dall’incremento qualitativo e quantitativo, oltre che in intensità e vorticosa accelerazione, della pluralizzazione: con i processi massicci migratori e conseguente urbanizzazione che hanno messo in contatto sullo stesso suolo miriadi di genti fino ad ora intraviste solo nei documentari televisivi; con un’ economia di mercato e un’industrializzazione che sconvolgono l’esistenza di innumerevoli individui e li costringono a una coesistenza relativamente pacifica; con uno stato di diritto e democrazia che garantiscono costituzionalmente questa coesistenza; con i mezzi di comunicazione di massa che presentano continuamente e persuasivamente una pluralità di modi di pensare e di vivere mediante materiali a stampa accessibili a tutti, a cui si sono aggiunti nell’ultimo trentennio i mezzi telematici, elettronici e audiovisivi di massa che hanno portato la casa nel mondo e il mondo in casa.
In questo scenario pluralistico «la maggior parte delle persone si sente insicura e disorientata in un mondo complesso pieno di possibili interpretazioni, alcune delle quali sono collegate a differenti possibilità di vita». Se nelle comunità di vita e di senso di un tempo si andava in “automatico” senza interrogarsi ogni istante sulle proprie scelte di fondo e non si era costretti a ridefinire ogni giorno gli aspetti significativi della propria esistenza, nel mondo plurale non c’è più nulla di scontato, eccetto le sacche di “abitudine” che riuscendo a preservare la normalità in mezzo all’apocalisse (continuare a lavarsi i denti mentre fuori bombardano) ci salvano momentaneamente dalla crisi di senso, dalla fatica delle scelte e dalla ridda delle opzioni. L’individuo di fronte alla pluralità comprende che la moltiplicazione incessante e inesausta delle opzioni non è solo davanti agli scaffali del supermercato (quale tipo di dentifricio?) ma anche nell’ambito sociale e spirituale. E non ci si può sottrarre alla scelta; la democrazia da un lato e l’economia di mercato dall’altro spingono l’individuo a scegliere, a prendere posizione, a dichiararsi. Finché sei nel ballo intrecciato non ti puoi sottrarre alle scelte; l’unica alternativa radicale sarebbe il vecchio lamento: “fermate il mondo voglio scendere”, e abbandonare il campo, sparire.
È in questo quadro che il pluralismo moderno ha indebolito la posizione di monopolio delle istituzioni religiose e le ha ridotte al rango secondario di fornitori di credenze, o nel migliore dei casi ad agenzie etiche. In tale contesto pluralistico religioso la scelta delle chiese (specie in Germania e in America) si deve misurare con le regole del libero mercato. In USA la formula che si adotta è “religious preference”, non “confessione religiosa”, che potrebbe fare riferimento a testimonianza e professione di fede, ma preferenza, scelta, un termine che prefigura distacco e rinuncia e la possibilità in futuro di un’altra scelta, di un’altra preferenza.
L’ancoraggio alle istituzioni
Quali risposte a questo stato di cose? Quali vie di uscita? Berger e Luckmann sono molto chiari. Essi non credono alle proposte alternative che si sono scontrate sul terreno ideologico, ossia da un lato la terapia di tipo radicale-collettivistico il cui effetto ultimo è sempre di tipo totalitario; né tanto meno quella di tipo radicale-individualistico il cui esito è fatalmente il solipsismo Anche le risposte di tipo “fondamentalista” (ritorniamo all’antico) come quelle di tipo “relativista” postmoderno che si rifiuta di declinare i valori, portando il pluralismo dalla società nella coscienza stessa dell’individuo, si poggiano su due estremi: la prima opzione vorrebbe chiudere le falle nella barriera difensiva, la seconda rimuovere le barriere che ancora permangono.
E dunque, dov’è la proposta terapeutica di cui discorrevo all’inizio? Berger e Luckman raccordandosi al lavoro di Arnold Gehlen ( L’Uomo. La sua Natura e il suo posto nel mondo, 1940) credono molto alla forza delle istituzioni. Noi che siamo cresciuti nel clima effervescente dei movimenti forse abbiamo perso di vista la centralità per la stabilità anche emotiva dell’individuo, delle istituzioni. Esse forniscono all’individuo istruzioni permanenti e certe di decifrazione della realtà e lo sgravano dalla necessità di reinventare il mondo di nuovo ogni giorno e riorientarsi in esso. Esse sostituiscono gli istinti e rendono possibile un agire rispetto al quale non occorre valutare, di continuo e con attenzione. Semplificano il pluralismo e riducono le opzioni, le scelte.
Solo che le istituzioni totali di un tempo, le chiese, gli stati, le famiglie non sono più coese e monolitiche come in passato. Al loro posto sono sorte le “istituzioni intermediarie”, dove sono confluite anche le chiese peraltro. Possono essere le comunità ecclesiastiche locali, un gruppo psicoterapeutico, un’agenzia di welfare, le associazioni solidaristiche in genere, quello che noi chiamiamo in Italia il “terzo settore”. Queste istituzioni intermediarie funzionano se non incorporano prospettive fondamentaliste (riscrivere le regole del mondo sia in funzione regressiva tornando all’antico sia in forma utopica descrivendo un mondo che non c’è e non ci sarà mai). Inoltre esse devono essere come Giano, da un lato guardare “in alto” verso le grandi istituzioni e in “basso” verso l’esistenza individuale. Esse hanno il compito di lenire in maniera omeopatica il disorientamento del vivere fornendo piccoli mondi dotati di senso. Contro la differenziazione e il pluralismo non c’è alcun rimedio sostengono Berger e Luckmann, ma forse – nel senso che dovrà essere sottoposta a verifica empirica – solo questa proposta “modesta e realistica” delle istituzioni intermediarie. Esse «mantengono le crisi di senso in condizioni di incipienza e impediscono che divampino. Il paziente viene conservato in vita, una vita che – a prescindere dalla predisposizione permanente a tali crisi di senso – non è affatto disprezzabile».
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Peter L. Berger e Thomas Luckmann, Lo smarrimento dell’uomo moderno, Il Mulino, Bologna 2010
Berger e Luckmann sono due sociologi austriaci naturalizzati americani. Il titolo originale di quest’opera è pertanto sia inglese che tedesco: Modernity. Pluralism and the Crisis of Meaning. The Orientation of Modern Man – Modernität, Pluralismus und Sinnkrise. Die Orientierung des modernen Menschen, 1995. Thomas Luckmann è morto otto giorni fa, il 10 maggio 2016.
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