La Promessa, di Morselli-Maestri, è per tutta l’umanità
Nel 2015, in un articolo apparso su Moked, Rav Riccardo Di Segni rispondeva all’interpretazione “spiritualizzante” e distorcente, e a suo avviso frutto di una incomprensione radicale delle Scritture ebraiche, del rapporto tra il popolo ebraico e Ereṣ Israel, da parte del priore Enzo Bianchi.
Secondo quest’ultimo, «noi cristiani che non abbiamo più terra né patria perché ogni terra straniera è per noi patria…, essendo cittadini del mondo in grado di fare scelte politiche, possiamo volere o non volere lo Stato di Israele, ma teologicamente non abbiamo parole in merito…la mia fede non mi autorizza ad ipotizzare uno Stato d’Israele». Ad avviso di Di Segni questa affermazione manifesta «L’incomprensione di chi, come cristiano, non avrebbe “più terra né patria”, ma che ha sempre avuto terre e patrie, definite cristiane e talora cristianissime, nei confronti di chi – il popolo d’Israele – la terra ce l’aveva, promessa, ma l’ha perduta per millenni, senza tuttavia dimenticare il suo rapporto con essa». Infatti «Lo Stato d’Israele è una struttura politica, ma prima dello Stato c’è “il tema della terra”, che Bianchi cita ma poi non affronta; e il rapporto del popolo d’Israele (anche di chi non è credente) con la terra è qualcosa di ben diverso che precede e sovrasta la politica […] Abramo viene mandato via dal suo luogo di origine non verso un posto qualsiasi, ma verso la terra che verrà promessa ai suoi discendenti. Dimenticare questo significa dimenticare le storie dei Patriarchi, il senso dell’Esodo, la conquista della terra, l’annuncio dell’Esilio e il ritorno dall’Esilio, e poi – nel seguito della storia ebraica – il costante legame di fede e di preghiera verso la terra che venne sottratta».
Tale incomprensione da parte di un eminente esponente della teologia cristiana è il residuo di una «interpretazione a senso unico» delle Scritture, e manifesta ancora un segno di egemonizzazione ermeneutica da parte cristiana delle Scritture ebraiche, che ha la sua matrice da una parte nel latente marcionismo, e dall’altra, nella teologia della sostituzione.
Questo tema così scottante e delicato viene affrontato da un libro uscito nel maggio del 2023 presso l’editrice Castelvecchi ad opera di Marco Cassuto Morselli e Gabriella Maestri, dal titolo La Promessa. In un volumetto di 115 pagine questi due studiosi, un ebreo e una cristiana, tentano, riuscendovi, di istituire un colloquio con la posizione di molti cristiani, e talora anche di alcune chiese, cercando di collocare tale dialogo a partire dal tema centrale della Promessa della terra da parte di Dio al popolo ebraico come Promessa per tutta l’umanità, e lo fanno, da una parte, attraverso una ricostruzione ermeneutica dei vari luoghi biblici in cui questa Promessa risulta essenziale alla fede ebraica, e istruendo, dall’altra parte, una sintetica ma essenziale ricostruzione dell’interpretazione cristiana, a partire dai luoghi testuali problematici che tendono a escludere tale vincolo costitutivo tra popolo e Ereṣ Israel, «spiritualizzandolo» in base a una distorcente visione messianica che vedrebbe nella “chiesa” il luogo del compimento di tale promessa.
I due autori cercano di dimostrare come la parola rivolta ad Avraham – al quale in Bereshit/Genesi Ha-Shem promette «Alla tua discendenza darò questo paese (Gn, 12,7) – , costituisca «il cuore» delle Scritture ebraiche, Promessa che infatti viene continuamente ripetuta, e proprio in momenti di grande difficoltà, al popolo d’Israele, ad esempio a Mosheh, al quale dopo la vicenda del vitello d’oro Ha-Shem si rivolge in questo modo: «Su esci di qui tu e il popolo che hai fatto uscire dal paese d’Egitto verso il paese che ho giurato ad Avraham/Abramo, a Yishaq e a Yaaqov dicendo: “Alla tua discendenza la darò”» (Es 33,1). Tale giuramento viene continuamente ribadito dai profeti (ad esempio da Yirmeyau/Geremia [Ger 11,4-5], da Yehezqel/Ezechiele [Ez 36, 24-28]), e viene collegata alla città di Yerushalaym/Gerusalemme o Siyon e il suo Santuario (Bet ha-Miqdàsh), che acquista una posizione centrale, ad esempio in Yeshayahu/Isaia (Is 52,1; Is 54,5-8 dove viene descritto il rapporto sponsale tra la città e Ha-Shem, e Is 66, 10-14a, dove è presente il tema della gioia e della consolazione legato alla Promessa del ritorno alla Città santa), in Yirmeyahu/Geremia (Ger 2,1-2; Ger 3,17-18) che invita il popolo, nonostante la sua infedeltà, dopo un percorso di Teshuvah (risposta, ritorno, pentimento, conversione), a vedere in essa il luogo amato da Ha-Shem. Lo stesso profeta allarga l’orizzonte della Promessa a comprendere tutti i popoli, Zekharya/Zaccaria ribadisce il perdurante amore di D*o verso la Città nella quale sarà ricostruito il Suo Tempio (Zc 1,16). Nel saggio sono dettagliatamente elencati alcuni di questi luoghi testuali, e viene data anche una particolare centralità al libro Shir ha-shirim (Cantico dei Cantici), testo che, come spiega Massimo Giuliani, «sembra parlare di attrazione sessuale e di intimità amorosa, [ma] in realtà tratta di un problema politico, o meglio teologico-politico per antonomasia del popolo ebraico: l’esilio» (Eros in esilio. Lettura teologico politica del “Cantico dei cantici”, Medusa, 2008, p. 11). È l’esilio (Golàh) infatti che costituisce la cifra teologica e prima storica del rapporto con il ritorno a Ereṣ Israel, esilio che ha caratterizzato sia il fuoco attorno al quale già nei testi biblici il popolo d’Israele ha letto la speranza della Promessa divina (Galùt Bavèl, esilio babilonese, durato 60 anni – 597 a. e. v. al 538 a. e. v.), sia le interpretazioni teologiche, spirituali e mistiche nella tragica esperienza diasporica successiva alla distruzione del Tempio (Galùt Edòm [esilio di Roma], durato quasi 2000 anni, dal 70 a.e.v al 1948). Prima della Shoah, l’esperienza del Gerùsh Sefaràd (l’espulsione degli Ebrei dalla Spagna del 1492) avviò una reinterpretazione mistico-qabbalistica da parte della scuola di Safed, provocando un risveglio delle speranze messianiche legate al ritorno alla terra, speranze in parte deluse ma non abbandonate dopo la drammatica vicenda del falso messia Shabbetay Zevi (1662), che si concretizzò nell’inizio di un progressivo insediamento prima di pochi, poi, a causa dei pogrom di fine ottocento, sempre più numerosi, in virtù della nascita del sionismo moderno (nelle sue diverse varianti, spirituali, culturali, politiche), e da ultimo, dopo la immane tragedia dell’Olocausto, alla costituzione dello Stato di Israele.
Nella parte centrale del libro di Morelli e Maestri viene ricostruito il processo attraverso il quale la Promessa ebraica, che si condensa nelle tre parole Paese, discendenza, benedizione, subì una distorsione interpretativa nella teologia, e nella conseguente prassi persecutoria e discriminatoria cristiana. Tale “spiritualizzante” ereditava l’ermeneutica tipica dell’allegoresi di Filone d’Alessandria. Gli autori ricordano che «la parola ‘Promessa’, e il verbo ‘promettere’ non compaiono mai nella Bibbia ebraica, [ma] sono presenti invece termini ben più forti shevuah e nishba (giuramento, giurare), con i quali D*o si impegnava a tener fede alle sue promesse irrevocabili. La traduzione dei Settanta traduceva i due termini con orkos e omnymi, ma «Filone impiega al loro posto i termini epangelia e epangello (promessa e promettere) che hanno però sfumature di significato diverse rispetto a “giuramento” e “giurare” e consentono anche uno slittamento semantico rispetto al contenuto». Ne L’Erede delle cose divine, dedicato alla figura di Abramo, alla richiesta fatta da costui a D*o su chi sarà il proprio erede, D*o risponde che «sarà colui che sa trascendere, oltre che il mondo, anche se stesso. […] Nella concezione filoniana l’erede è quindi il sapiente e la terra promessa è la Sapienza. […] Tutto questo ha portato a reinterpretare allegoricamente anche il dono della terra. Nella sua visione il paese, la parentela e la casa che Avraham è chiamato a lasciare diventano i simboli del corpo, della sensazione e della parola. La migrazione del patriarca significa [platonicamente] il superamento del mondo corporeo e fenomenico per giungere alla terra promessa, cioè alla Sapienza». Anche nel Nuovo Testamento compaiono i termini epangelia e epangello, e questo passaggio viene spiegato dagli autori come una reinterpretazione del tema dell’effusione della Ruaḥ, che originariamente era legata al ristabilimento del popolo nel proprio paese, e invece nelle scritture evangeliche si volge all’interpretazione spiritualizzante simile a quella filoniana. Il termine ebraico ereṣ viene tradotto con il termine ge, non sempre univoco, che può cioè significare terra in senso del paese di Israele, e terra in generale, questo, a detta degli autori, a causa della preoccupazione degli estensori dei vangeli di «non entrare in collisione con le autorità romane». Nella Lettera ai Romani, Shaul/Paolo presenta «la Promessa ad Abramo non più come la Promessa del paese, ma come la Promessa di redenzione per tutta l’umanità». Nella Lettera agli Ebrei, che secondo gli autori, «è composta poco dopo la distruzione del Tempio e la devastazione di Yerushalaym, il riferimento al paese è invece presente, sia pure in modo criptico, sempre per evitare la censura e la repressione romana». La «nuova alleanza» di cui parla la Lettera agli Ebrei, «non è da intendersi in modo sostitutivo… «In Eb 10, 32-36 la Promessa può riferirsi sia alla liberazione politica e religiosa di Ereṣ che all’eredità eterna. In 1GV 2,25 la Promessa è invece relativa alla vita eterna, è scomparso il riferimento ai contenuti della Promessa fatta ad Avraham, in particolare riguardo al paese. Il tema della terra è presente anche nell’Apocalisse, sempre con riferimento criptico e ambivalente, per le stesse ragioni di natura politica. Mentre Yeshua/Gesù storico – praticante delle miṣwot e frequentatore del Bet ha-Miqdàsh, come pure i primi discepoli, probabilmente riferiva la speranza messianica anche al ristabilimento di un nuovo Tempio, la letteratura patristica successiva alla distruzione del Tempio da parte romana perse questo riferimento concreto e forzò l’interpretazione del contenuto della Promessa decisamente in senso spiritualizzante, confacente del resto con il nuovo statuto politico della nuova religione cristiana.
A partire dal IV secolo si impose la visione teologico-politica di Eusebio di Cesarea nella sua Storia ecclesiastica, «per la quale la distruzione di Gerusalemme e del tempio rappresentava la giusta punizione per il terribile crimine del deicidio. La colpa dell’uccisione del Messia veniva fatta ricadere sui Giudei, scagionando i Romani» […] Le guerre di Roma contro Yerushalaym ebbero drammatiche conseguenze sul rapporto tra Ebraismo e Cristianesimo – conseguenze che durano fino ai nostri giorni». Mentre infatti agli inizi «la comunità dei discepoli di Yeshua era retta da vescovi appartenenti alla Ecclesia ex circumcisione, Ebrei osservanti la Torah e le miṣwot, dopo il 135, con l’espulsione degli Ebrei da Gerusalemme compresi i seguaci di Gesù, i Vescovi iniziarono ad essere ex gentibus […] la prima chiesa fu “tagliata fuori”, [e] la sua memoria si è perduta fino a tempi recenti».
La successiva letteratura dei padri della Chiesa, come Ignazio di Antiochia, e poi come l’autore della Lettera di Barnaba – che sosteneva «I Giudei perdettero completamente l’alleanza ricevuta da Mosè […] affinché quella dell’amato Gesù fosse incisa nel nostro cuore con la speranza della fede in lui [IV, 7, 9], e Giovanni Crisostomo, «uno degli autori che più hanno contribuito a diffondere l’insegnamento del disprezzo; [è in lui che] si realizza una fusione di elementi improntati all’antisemitismo popolare con pregiudizi teologici…». E poi soprattutto Agostino di Ippona, che elabora la dottrina del popolo testimone, che porta all’iperbole il dispositivo sostitutivo fino al ribaltamento, secondo cui i giudei sono testes iniquitatis suae et veritatis nostrae (Enarr. In Ps. 58, 1, 22).
Gli autori sintetizzano questa triste vicenda, legata alla teologia della sostituzione e all’insegna mento del disprezzo praticati dal Cristianesimo, che troverà la sua conclusione attraverso una opera di Teshuvah del mondo cristiano dopo la Shoah. Leggere le citazioni dalla “Civiltà Cattolica” di fine Ottocento, e financo le affermazioni di alcuni papi ostili all’aspirazione degli Ebrei al ritorno al Ereṣ è tristemente istruttivo, come ad esempio quelle di Pio X che, congedando Theodor Herzl (nel 1904), gli si indirizzò così: «Noi non possiamo favorire questo movimento [il sionismo…] La terra di Gerusalemme, anche se non sempre sacra, è santificata dalla vita di Gesù. […] Gli Ebrei non hanno riconosciuto nostro Signore; perciò, non possiamo riconoscere il popolo ebraico». Oppure quelle del segretario di Stato Merry del Val che aveva detto: «Finché gli Ebrei negano la divinità di Cristo, noi non possiamo pronunciarci in loro favore». Rimaneva del resto, anche ai più alti livelli dele gerarchie cattoliche, l’accusa del sangue, e la propalazione del mito del complotto ebraico del nefasto libello “I protocolli dei savi anziani di Sion”, negando persino quella Associazione di buona volontà tra clero e laici che volevano negare queste accuse infamanti (nel 1928 Il Sant’Uffizio sciolse l’associazione degli “Amici di Israele” costituita nel 1926 a tal fine).
Dopo la guerra e dopo la Shoah, iniziò quella che giustamente gli autori chiamano la Teshuvah cristiana, con la Conferenza di Seelisberg del 1947, e soprattutto con il libro di Jules Isaac Jésus et Israël (1948), e poi con l’incontro tra lo stesso intellettuale francese e papa Roncalli, al quale Isaac fece pervenire un dossier che quest’ultimo girò al cardinale Augustin Bea e che costituì la base della conciliare dichiarazione Nostra Aetate del 1965. Da allora, dicono gli autori, che ne registrano la produzione in documenti ufficiali, molti progressi sono stati fatti nel riconoscimento da parte cattolica del popolo ebraico, e anche da parte ebraica verso il Cristianesimo, e più in particolare verso il Cattolicesimo (Le dichiarazioni Dabberù Emet (2000), Padre nostro nei cieli (2015) Tra Gerusalemme e Roma. Riflessioni a 50 anni dalla Nostra Aetate [2017], che constata «l’evidente trasformazione degli atteggiamenti cattolici verso le comunità ebraiche, esemplificata dalla recente visita di Papa Francesco a una Sinagoga [di Roma], l’annunciato documento Krishenenu. Il nostro legame [2022]). Le acquisizioni di questo nuovo atteggiamento del Cristianesimo verso l’Ebraismo consistono nel riconoscimento del valore permanente dell’alleanza tra D*o e il popolo ebraico, l’abbandono di miti e stereotipi antiebraici legati al dispositivo sostituzione/maledizione, il riconoscimento dell’ebraicità permanente di Gesù, e quello iniziale della chiesa gerosolimitana, la riscoperta – più recente (e ancora controversa) – dell’ebraicità di Shaul/Paolo, e la cessazione – almeno nella maggior parte delle chiese – della pratica conversionistica verso gli Ebrei.
Tuttavia, proprio a questo riguardo permangono, a parere degli autori alcune problematicità: infatti, seppur un’opera di conversionismo proattivo sembra cessata, resta una visione teologica di lungo periodo circa l’auspicata – da parte cristiana – conversione finale degli Ebrei; a questo proposito, gli autori dichiarano: «altro è una legittima speranza che la messianicità di Gesù sia riconosciuta [da parte ebraica], altro è far coincidere tale riconoscimento con una conversione che dal punto di vista ebraico sarebbe un’apostasia».
In conclusione, questo libro che vuole essere parte del processo di dialogo e riconoscimento tra Cristianesimo e Giudaismo, ed anche Islamismo (le tre religioni sorte dall’unico ceppo abramitico), auspica la cessazione delle lotte fratricide tra religioni, il superamento del desiderio mimetico di sostituirsi al fratello, l’abbandono del desiderio di essere qualcun altro, il rendersi conto che ogni tradizione (ma il discorso vale soltanto da parte cristiana e islamica) ha diritto alla propria benedizione e non c’è necessità di impossessarsi di quella degli altri. La reinterpretazione in chiave riconciliativa di alcune figure di fratelli nella Bibbia (Caino e Abele, Isacco e Ismaele, Giacobbe e Esaù) prospettata da alcuni pensatori ebrei come David Meyer e Jonathan Sacks – anche se pochi ancora sono quelli da parte cristiana, tra i quali spicca però l’eccezione di Jacques Maritain – significa la riconciliazione tra le religioni. Dopo la Shoah, un maestro come Rav Joseph Dov Beer Soloveitchik (1903-1993) poteva dire: «nei 15 anni trascorsi [1941-1956] abbiamo subito prove tremende e incomprensibili, che non hanno precedenti migliaia di anni di diaspora, abbrutimento e derelizione, distruzione. Questa fase di sofferenze non è cessata con la nascita dello Stato d’Israele. Ancora oggi questo stato è in condizione critica e in pericolo, e tutti temiamo per il suo futuro». Un altro grande maestro della Machshevet Israel (pensiero d’Israele) come Abraham Joshua Heschel, benché avesse definito, nel suo libro The Sabbath del 1955, l’Ebraismo come una religione del tempo, che mira alla santificazione del tempo, nel 1967, quando Israele fu attaccato dall’Egitto, scrisse un altro libro Israel. An Echo of Eternity, nel quale focalizzava il tema dello spazio, e invitava il popolo d’Israele a «non farsi prendere dalla disperazione, a non dimenticare la nostra origine, a tener viva in lui la visione del nostro destino finale» (Israele eco di eternità, Queriniana, 1977, p. 88), e, cosa molto importante, assegnava a questo ritorno degli Ebrei nella Terra e alla costituzione dello Stato, il ruolo messianico per tutti i popoli: «noi siamo testimoni della resurrezione. Essere testimoni comporta un cambiamento interiore radicale. Il ritorno alla nostra terra è un segno evidente che la redenzione è possibile per tutti gli uomini. Fermati e osserva: L’incredibile si è avverato. La visione era una Promessa di Dio e la via che portava la sua realizzazione era lastricata di sacrifici. Il nostro ritorno a Sion è il più grande evento della storia misteriosa che ha avuto inizio con un solo uomo, Abramo, il cui destino è risultato una grazia per tutte le nazioni. Il nostro impegno irrinunciabile è di difendere quella Promessa e quel destino: essere una benedizione per tutte le nazioni (Ivi, p. 180, corsivo mio). Gli autori ricordano inoltre come «la dimensione religiosa del sionismo è purtroppo ai nostri giorni imprigionata in un nazionalismo di destra che si contrappone radicalmente al laicismo di sinistra altrettanto aggressivo», additando come sviluppo della promessa messianica il pensiero di Nathan André Chouraqui (1917-2007) che, mettendo in luce le radici comuni delle tre religioni abramitiche, prospetta un «sionismo interreligioso», per il quale «solo il dialogo interreligioso aprirà la via verso la pienezza dello shalom». Il libro si conclude con questa frase di speranza: «Senza la Promessa, la Storia sarebbe una catena di eventi forse casuali, forse insignificanti, comunque nemmeno sfiorati dalla amorosa presenza di Ha-Shem. Dichiarare la Promessa già pienamente compiuta equivale a vanificarla. La Promessa rende feconda l’attesa, nella speranza del compimento, sostiene la speranza, come dice Maimonide nel suo Credo: “Io credo con fede completa nell’avvento del Messia e, sebbene possa tardare, aspetterò ogni giorno la sua venuta”».
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