Il trauma del virus e il ritorno della natura selvaggia
Il diniego «è una forma di negazione del reale attraverso una lettura più “accettabile”. Non si negano i fatti, ma si leggono in modo che possano evitare il contatto con la realtà psichica più profonda e con quella esterna. Le emozioni sono bloccate e la consapevolezza come annullata. Si tratta di un’operazione arcaica che in alcuni casi può assumere un carattere perverso. Il reale viene nominato, ma allo stesso tempo derubricato e allontanato. Come per esempio quando si diceva «muoiono solo gli anziani», come se in un paese come l’Italia, vecchi e giovani non fossero costretti a vivere insieme più che in altri paesi. Il diniego interpretativo è un meccanismo sempre presente quando si subisce un trauma».
Così si esprime David Meghnagi rispondendo a Wlodek Goldkorn in una bellissima intervista pubblicata originariamente su l’Espresso della scorsa settimana , in cui il professore e psicoanalista di Roma affronta il tema delle ripercussioni psicologiche collettive della epidemia da Coronavirus, utilizzando per esso la categoria di trauma collettivo. Il diniego fa i conti con una realtà insostenibile, che si tende a minimizzare, anche pensando di poter già da subito ritornare ad una vita “normale”, quasi che quanto abbiamo vissuto e stiamo ancora vivendo non costituisca che una parentesi, spiacevole quanto si vuole, ma pur sempre chiusa. E invece non è così, purtroppo, e le notizie che arrivano dal mondo, insieme al riattivarsi qua e la di focolai nel nostro paese, non ci confortano in un ottimismo che il diniego vorrebbe imporci. Si legge che, complice l’estate, la gente ha ripreso la movida, si accalca in bar e discoteche, riempie spiagge e intasa spazi lasciati precedentemente deserti. I “pessimisti” vengono tacitati come uccelli del malaugurio, quando non accusati di essere “lavoratori pubblici”, “che possono – quindi – permettersi di stare a casa a percepire uno stipendio senza lavorare” (sic), mentre la gente che fattura (?), il popolo delle partite iva, i commercianti e le altre categorie produttive, senza movimento, senza il ritorno alla normalità, semplicemente vanno in rovina. Il che, non lo nego, è anche vero, ma non si vede che colpa abbiano i lavoratori delle categorie protette, se non quella di costituire un nuovo capro espiatorio sul quale riversare la rabbia di chi non sa con chi prendersela, dopo aver esaurito le contumelie contro “il governo, i politici, i big pharma”, e chissà quali altre entità mitologiche.
Quello che ci è accaduto, e che sta ancora accadendo, ha il carattere epocale di un punto di svolta della nostra civiltà. Non è, come dice Luca Ricolfi, che «rischiamo il crollo della nostra civiltà»: qui qualcosa è già accaduto, il nostro mondo è, se non proprio crollato, almeno cambiato per sempre. Si è ritornati ad una situazione quasi primitiva, da «stato di natura», sotto il richiamo di bisogni primari come: sopravvivere, difendersi dall’indifferenza dalla malattia, dal virus, dal contagio: tutte entità che non hanno alcuna “intenzionalità razionale”, ma sono semplici dinamismi dell’elemento biologico da cui per la massima parte dipendiamo, la nuda vita, rispetto alla quale ci illudiamo con i nostri dispositivi tecnici di poter costituire un “mondo separato”, immunizzato tecnicamente.
Il contagio, la pandemia, ma anche un semplice mal di denti, ci riconducono invece al nostro essere dipendenti dalla natura, e accettare questo implica una assunzione di consapevolezza ardua, che spesso solo la malattia può ridestare, inchiodandoci al nostro elemento biologico costitutivo.
Dunque la «crisi» della civiltà è il contrario di quello che si diceva negli anni ’20 del secolo: allora si parlava di perdita del mondo tradizionale, del contatto con la natura, di precipitazione in un mondo industrializzato che obliterava i “vecchi valori”: adesso è esattamente il contrario. Siamo bruscamente ricondotti al contatto con la natura, nella forma del dominio incontrastato del bios sulla tékhne.
Volevate questo filosofi postumanisti, heideggeriani, primitivisti, anticapitalistietc etc? Ecco, ora lo avete.
Che lo vogliamo o noi, siamo ricondotti entro le righe di una delle più belle pagine delle Operette Morali di Leopardi, il Dialogo della natura e di un Islandese:
«Natura. Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattonepochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro che alla felicità degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.»
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