Diario al tempo del virus (nella notte del 16 marzo)
Non mi piacciono i canti da balcone a balcone
so che sono un esorcismo
ma che avete da urlare cazzo
non mi piacciono neppure i flagellanti
se fossi Dio non mi placherei.
Vorrei solo preghiera,
nuda muta assente.
Gli anziani soli
sulle sedie, nei letti
nelle case senza riposo
li pensavo, oggi,
a guardare dietro i vetri opachi
chini sul proprio fiato.
Qui sopra c’è un ospizio
vanno e vengono
ambulanze silenziose
Dialoghi interrotti,
fosse comuni di memorie e singhiozzi.
Amori mai cessati di interrompersi.
Un appello:
Telefonate ai vostri padri, ai vostri nonni,
alle vostre madri e zie
prima che il loro fiato cessi,
vi imploro, fatelo.
Pregate in loro
il Dio che tace.
Ah già, il diario:
Mattina svegliato presto
lavato le mani e viso
bevuto il caffè d’orzo del bollitore
visto i titoli dei giornali
passato molto tempo sui social
a leggere commenti di giornalisti US e UK.
Ho spazzato per terra,
Ho passato lo straccio.
Ho fatto una passeggiata di 17 minuti,
su per l’erta che porta alla radura
dall’alto ho visto la vallata
– acquario silenzioso –
ho incrociato un ragazzo con un cane
l’ho chiamato,
mi ha risposto con un sorriso d’imbarazzo
«è tutto ciò che ci rimane»,
mentre il cane mi si avvicinava.
Poi ho avuto un’idea: Perché non offrire un po’ del proprio tempo per parlare con persone che sono sole a casa, specialmente anziani o malati? #ioparloconte
…..
Ma nel nuovo giorno che è iniziato
in questa nuova notte
come ogni anno ricordo
quel 16 marzo del ’78,
e questo è il diario retrospettivo di quel giorno:
Chissà perché ne ricordo i dettagli a partire dal colore giallo ananas del maglione del bidello. Ora non saprei dire se fosse veramente tale, o non piuttosto un custode. Entrò in classe guardando in faccia la maestra Bianchini. La mia maestra sbiancò: «No!» – fece, sbattendo le mani una nell’altra. Noi non capivamo perché i grandi fossero così sconvolti. E anzi quasi eravamo eccitati, perché qualcosa stava succedendo, era successo, e insomma dovevamo tornare a casa. Presto. Subito. Ricordo che salii le scale della casa di nonna, ma quella volta non c’era l’odore di sugo di carne che saliva nella tromba delle scale. Un silenzio strano faceva udire il rimbombo ovattato di un’unica emissione televisiva che filtrava da ogni porta. La porta di mia nonna era semiaperta, e lei invece di essere in cucina era davanti alla televisione del salotto.
Frajese – «Ecco stanno arrivando le immagini che abbiamo ripreso…»
Vespa – «al Trionfale—-»
Fraiese -sì, a via Stresa…, sì… Sono quattro i morti, sono lì… due nella macchina , nella prima automobile… sta arrivando?»
Vespa, parlando al telefono. «sì? Possiamo dare la partenza, sì, allora è pronto il tuo servizio, sì…»
Fraiese – e «Adesso vediamo il primo servizio sul rapimento di Moro avvenuto un’ora fa…»
Seguivano le immagini di un mucchio di gente in piedi vicino a due macchine crivellate di colpi, e poi dei lenzuoli a coprire delle persone per terra e dentro le macchine. E una bava di sangue che scorreva da sotto un lenzuolo da cui sporgeva una mano con un orologio come quello di mio padre.
Non era un film, non era assolutamente un film. Lo sapevo, a me non stupiva che fosse reale che avessero sparato. Tutti i giorni sparavano. Le brigate rosse… Stupisce invece oggi, dopo poco più di quarant’anni da allora, mentre scrivo, che a me bambino, a quel bambino che ero sembrasse strano che se c’erano stati dei morti qualcuno avesse voluto coprirli. Ma perché se erano morti? Non potevano prendere freddo. Se non volevano che si vedessero potevano toglierli subito di là, e non lasciare che la tv li riprendesse così, stesi a terra.
«Poveri figli. Poveri figli! » mia nonna ripeteva. Poveri figli. Anche se erano padri, erano figli. Nel dialetto di mia nonna era il modo di onorare quegli uomini, ma si preoccupava di chi lo avrebbe detto alle loro mogli, alle loro madri.
«Delinquenti maledetti», quelli che avevano fatto quei morti. «Madonna santa, poveri figli. Ohi madonna….»
Mentre la tv mandava quasi in loop quelle immagini – che poi avrei rivisto, ricollocato nella loro dimensione storica, anche se ancora oggi faccio fatica a realizzare veramente come a quel tempo tutto ciò potesse sembrarmi normale – la memoria è fissata su quella scena. Il salotto di mia nonna, la tv accesa, quei lenzuoli bianchi. E poco prima il maglione del bidello e la maestra che era scoppiata a piangere. «Il presidente è stato rapito».
Poi non ricordo più nulla. Solo che mi mancava il respiro.
Quattro anni dopo ero in macchina con mio padre, stavamo andando a Taranto. «Se avessero vinto le BR, le avrebbero considerate come oggi considerano gli eroi del risorgimento. Ma hanno perso. La storia lei fa così». Credo fosse l’83.
Ma cosa era successo a quella generazione? A quella di mio padre dico. Che poi era quella che sparava per strada. E alla mia che a otto anni scriveva: «Violenza spari morti assassini furti ostaggi. Via tutto questo, via! E un giorno diremo abbasso l’odio, viva l’amore». Questa poesia la scrissi nella pasqua di quell’anno, credo. La maestra ci fece raccogliere quelle che avevamo composto, e conservo ancora il libretto rilegato. C’era anche quella di Angela. «Un passero si posa sul davanzale. Cerca qualche briciola la trova. È contento, ha capito che qualcuno lo ama». L’amore. Tutte queste poesie finivano con l’amore. Forse perché la quota di barbara aggressività di quella società era tale che le parole che si insegnavano ai bambini dovevano avere la purezza assoluta, quasi brutale, di un esorcismo. Non erano canti dal balcone, ma poesie di bimbi….
Thom Yorke aveva un anno più di me, e forse non se ne accorse neppure di quello che successe a Roma quel giorno, e non aveva certo ancora scritto questa canzone, ma forse anche a lui, in qualche giorno di qualche anno a venire, sarà mancato il fiato. As in an interstitial pneumonia.
Ma tu
respira,
continua a respirare
non perdere il coraggio
non posso farlo da solo
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