“Generi” culturali

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14 Maggio 2021
Illuminante Cigno Nero,

sono in fila in un ufficio e senza volerlo ascolto la telefonata di una donna: accusa il marito di non fare nulla in casa, e dopo vari discorsi: “se nasco un’altra volta, voglio nascere maschio. Purtroppo noi siamo femmine”.

La donna non credo abbia più di trent’anni, più giovane di me eppure con i suoi pregiudizi. 

Il problema del genere riguarda sì la donna, ma i pregiudizi non appartengono solo agli uomini, anche noi li fecondiamo portandoli avanti, come macigni, con rassegnazione.

Ecco, il vero problema del genere è che prescrive come dovremmo essere, invece di riconoscere come Siamo. Ma in fondo anch’io cerco di disimparare alcuni atteggiamenti/pregiudizi che ho interiorizzato crescendo, sebbene una parte di me si sia sempre ribellata a certi modi di pensare (ero considerata un vero maschiaccio e di conseguenza non una brava bambina perché mi arrampicano sugli alberi, avevo la moto, non mi piacevano le gonne).

Ancora adesso mi sento vulnerabile di fronte a certe aspettative legate al genere.

Diversi anni fa, per andare ad un colloquio di lavoro scelsi accuratamente un tailleur pantalone molto mascolino che non ho più messo perché mi ricordava che l’avevo scelto perché pensavo che nascondendo la mia femminilità sarei stata presa sul serio.

Oggi lo sguardo maschile non credo influenzi le mie scelte. Ho maggiore consapevolezza di me stessa e valgo anche se non uso un dato shampoo per capelli.

La cultura non fa le persone, ma sono le persone a farla. Ci siamo evoluti, ma le idee sul genere non hanno subito la stessa evoluzione. Eppure la differenza di genere è meramente biologica…

Mapy

 

Cara Mapy,

difficile essere illuminanti su una questione tanto complessa quanto feconda di studi, per giunta non necessariamente convergenti verso i medesimi esiti. Che però il genere non sia una “questione meramente biologica”, al contrario di quanto scrivi, è tra i pochi dati fermi. Nascere con un apparato sessuale maschile o femminile è un fatto sì biologico, naturale; il genere definisce invece tutta quella serie di inclinazioni individuali e comportamenti sociali che distinguono le donne dagli uomini. Si può dunque nascere con un apparato maschile ed essere donna, tanto per citare una delle possibilità. Quando la tua sconosciuta commentava nell’ufficio “se nasco un’altra volta, voglio nascere maschio”, probabilmente non si riferiva solo a un apparato sessuale, ma anche al genere-uomo  ‒ preferibilmente eterosessuale, aggiungerei. Se bianco ancor meglio ‒.

Sembrano sottigliezze linguistiche di poco conto, ma specificarle ci aiuta a capire quanto il pregiudizio sia ben più stringente e radicato rispetto al troppo spesso banalizzato dualismo tra sesso “forte” e sesso “debole”, di cui abbiamo parlato qui lo scorso mese. Il pregiudizio, infatti, riguarda ancor prima una fantomatica corrispondenza tra sesso e genere. E ciò che più sentiamo pesare come un macigno è quel “genere” che, invece di de-scrivere chi siamo, pre-scrive e pre-giudica chi dobbiamo essere.

La filosofa Judith Butler definisce il genere come un concetto tanto astratto quanto “performativo”, nel senso che il solo fatto di essere linguisticamente definiti maschi o femmine sul nostro atto ufficiale di nascita ha il potere di creare una realtà che prima non esisteva: dall’abbigliamento all’educazione, dai giochi ai programmi tv, siamo dapprima chiamati a rispecchiare la performance, e poi “richiamati” se non la rispecchiamo.

Per il mondo patriarcale ed eteronomo le performance non sono solo ben distinte, ma soprattutto gerarchicamente ordinate: l’uomo in posizione di potere e la donna funzionale ad esso, quindi subalterna. Era ed è il “secondo sesso”, titolo del libro che usciva ormai 70 anni fa, dopo qualche tempo di pit-stop all’Indice del Santo Uffizio. “Donna non si nasce, lo si diventa”, tuonava Simone De Beauvoir per risvegliare il potere di creare sempre sé stesse, per reagire a quello che ingannevolmente fanno apparire come un destino biologico, quindi politico, sociale ed economico. Nonostante la loro potenza deflagrante, però, quelle parole incontrarono la critica di una parte di femminismo per aver in qualche modo supportato un impianto essenzialistico che, anziché rendere conto della differenza, reiterava e potenziava la dittatura dell’Uno. Quest’ultima si riassume nel meccanismo perverso che descrivi tu, quando racconti la motivazione del tuo tailleur “mascolino” al colloquio di lavoro: fu un abbigliamento che sentivi non appartenerti, ma necessario per essere presa sul serio; il rammarico che si legge è dovuto probabilmente al fatto che ti abbia resa complice di ciò a cui intimamente volevi ribellarti: pensavi di meritare quel posto perché non è vero che gli uomini siano più adatti a certi tipi di lavoro, ma per dimostrarlo hai indossato proprio quella “maschera”, rafforzando così l’idea contraria.

Di “mascherata” parla anche Butler, riprendendo Lacan, ma non per riferirsi a manifestazioni episodiche, bensì alla quotidianità che va in scena nel mondo solo perché l’uomo possa continuare a riconoscersi Soggetto, e senza nemmeno interrogarci su quali siano i nostri reali desideri.

Il problema è che la maschera è forte, spesso più forte di noi al punto da affermarsi come nostra essenza. E questo passaggio è ancor più semplice perché la Legge ‒ che non è scritta, ma è quella del padre ‒ sta tutta dalla sua parte, e continua a farci scomparire dalla storia, a dissolverci nelle genealogie patrilineari dopo aver assolto la nostra funzione strumentale di costruire legami di potere.

Ma oltre la maschera c’è sempre qualcuno o qualcuna. Ed è da lì che possiamo partire per accorgerci con Sartre che l’esistenza precede l’essenza, che ciò che siamo e scegliamo di essere ogni giorno non è solo un “oltre”, ma un “prima” di ogni maschera. E il “prima” è più potente, perché è ciò che può divenire, al contrario della maschera. Che ci si smascheri ogni tanto, per non soffocare. Che ogni tanto ci si specchi, e non necessariamente per rispecchiare, ma per rispecchiarsi prima o poi.

La nostra identità, scriveva Locke, è data dalla nostra memoria, dai nostri ricordi. Sta a noi limitarci a collezionare ricordi mascherati, che per questo si dimenticano facilmente, facendoci quindi sparire, oppure vivere i giorni come tanti “prima”, trasformandoli cioè in ricordi che abbiano il potere di diventare, e farci diventare, sempre.

Dopotutto, dice Butler, “anche se si “è” una donna, ciò di sicuro non è tutto quello che si è”.

 

Concludi affermando che la cultura non fa le persone ma è vero il contrario, domandandoti allora come mai non si sia “evoluta” sulla questione del genere. Il rilancio potrebbe essere un interrogativo ulteriore: che differenza c’è tra “appartenere a” una cultura e “fare” la cultura?

Irene Merlini

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TAG: gender, Jean Paul Sartre, john locke, Judith Butler, pregiudizio, prescrizione, Simone de Beauvoir
CAT: Filosofia, Questioni di genere

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