Dietro la mascherina

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12 Marzo 2021

Caro Cigno Nero,

si può sorridere con gli occhi? Credo proprio di sì, avendone fatto esperienza mentre indossavo la mascherina, incontrando un’amica che non vedevo da molto tempo, anche lei col volto coperto, da analogo dispositivo, dal naso al mento. Si sa che l’attuale mascherina, principale simbolo della pandemia, a scopo esclusivamente protettivo, compromette di fatto la comunicazione con gli altri, costringendola al solo uso degli occhi, una volta annullato il labiale. Ma se è vero che siamo sostanzialmente il nostro sguardo sul mondo, ci rimane per fortuna ancora tanto da sperimentare.
Fin dal V sec. a.C., tutto il teatro greco ha largamente usato le maschere, nella duplice funzione di mettere in scena i vari tipi umani, con diverse caratteristiche e sentimenti, e di farli riconoscere anche da lontano. Oggi in tutto il mondo l’uso delle maschere, in occasione del carnevale, impone l’allegria come “maschera” adattata alla tristezza di fondo, che ricorda tanto la condizione di un clown del circo. Osservando la grande varietà di mascherine di colori e forme anche stravaganti, nonché i vari modi di indossarla o di rifiutarla, andiamo con la mente ai bambini, che scelgono questo o quel costume, per il carnevale, attratti dalla “maschera” nella quale si riconoscono meglio.
Possiamo quindi dire che la mascherina si sta rivelando piuttosto simbolo della affannosa ricerca della propria identità?

Teresa

 

Cara Teresa,

A inizio pandemia, lo scorso aprile, per le strade di San Francisco su un cartello si leggeva: “mi manca vedere il tuo viso”. Da noi medici e infermieri, per colmare la distanza che un’ assenza di volto può dare, soprattutto in un contesto di cura, hanno pensato di mettere, sotto quello coperto dalla mascherina, il proprio volto sorridente immortalato in una fotografia. È indubbio che la mascherina abbia modificato non solo la comunicazione, ma, in senso più ampio, il modo in cui incontriamo gli altri. C’è un senso di solitudine, di cui abbiamo fatto e facciamo tutt’ora esperienza, che non viene tanto dalla mancanza di corpi – per quanto reclusi in casa – ma di volti.

Tra i tanti contesti e significati della maschera, è interessante il tuo riferimento al teatro greco e al carnevale, dove il primo mette in scena la tragedia umana e il secondo l’allegria. Se nel teatro greco, come dici, la maschera aveva la funzione di fissare e rendere riconoscibili le caratteristiche e i sentimenti umani, la mascherina che indossiamo oggi ci omologa: siamo tutti uguali per sottrazione, nell’avere cioè buona parte del viso coperta, anche se proviamo a personalizzare ciò che ci copre. Questo simbolo della pandemia non l’abbiamo scelto come si sceglie una maschera a carnevale, e di certo, oltre a non renderci riconoscibili in questa o quella “maschera”, è qualcosa in cui non ci riconosciamo. Ci basta pensare a quanto strani o addirittura irriconoscibili ci siamo sentiti solo un anno fa guardandoci allo specchio la prima volta, con questo accessorio che abbiamo percepito come estraneo (che poi di accessorio ha ben poco).

Il significato etimologico di maschera è “persona”, punto di incontro tra fattori genetici e socio-ambientali. Siamo persone perché siamo capaci di agire liberamente e responsabilmente in quella dimensione esistenziale e relazionale che è l’essere-nel-mondo. Tutto questo è stato stravolto dall’emergenza sanitaria che, oltre a confonderci le idee su libertà e responsabilità, ha messo a dura prova l’integrità del nostro Io, cambiando il rapporto che abbiamo col mondo esterno soprattutto nel modo in cui ci relazioniamo agli altri.

Siamo persone, oltre che individui, perché veniamo riconosciuti dagli altri. La mascherina però ci preclude quell’ accesso completo alla reciprocità dei nostri volti: nell’incontro che ci vedeva responsabili, come voleva Lévinas, di quell’ esposizione estrema che ci convoca, ci domanda, ci “riguarda”, nel doppio significato della parola – per quanto gli occhi siano l’unica cosa che ci è rimasta – sperimentiamo un vuoto emotivo e una apatia dei pensieri che finiscono per spersonalizzarci.

Jung d’altro canto ci aveva messo in guardia dal pericolo di identificarci totalmente con la “persona”, con quel ruolo sociale che ci fa assumere una maschera, a scapito della nostra interiorità, e più ancora, della consapevolezza di averne una, che lui chiama “anima”.

Dietro quella maschera che indossiamo da sempre, ben prima della pandemia – quella della nostra esteriorità, che ci identifica a livello sociale e che ci mettiamo durante un colloquio di lavoro, così come ogni volta che  vogliamo piacere a qualcuno o a tutti – c’è quindi la nostra interiorità, e questo rapporto tra ciò che siamo dentro e ciò che mostriamo fuori è costruito su quel confine fragile che è il nostro volto. Ogni volto chiede uno sguardo, quando lo reclama ma anche quando vuole distoglierlo. Se però questo sguardo è lo sguardo pubblico, il nostro volto rischia di perdersi proprio dietro quella maschera esibita a sua difesa, dal momento che nessuno di noi vuole davvero essere visto per quel che è, nessuno vuole sentirsi completamente nudo allo sguardo dell’altro. Piuttosto, ognuno di noi ha il suo punto di vista dal quale vuole essere guardato. Come cambia tutto questo se gli occhi sono l’unica cosa che ci resta del volto? La mascherina è un filtro: l’altro non ha più odore, la sua pelle ci è preclusa e quindi non ha più sapore, la sua voce è camuffata e la vista limitata ad una piccola parte. In questa opacità dei sensi, che coincide con l’opacità dei volti, siamo costretti a capovolgere i significati di cura e attenzione nel nostro essere distanti e irriconoscibili. Resta il fatto che questo confine, luogo fisico e culturale, il più intimo e il più esterno allo stesso tempo, è anche ciò che “traduce nel modo più diretto e complesso la nostra interiorità”, come scrivono J. J. Courtine e C. Haroche, che del viso hanno raccontato la storia, una storia in cui quella interiorità non resta del tutto celata, perché il viso parla, anche dietro la maschera, anche quando vuole dire il contrario di ciò che esprime. E allora, un viso dietro la mascherina ha ancora qualcosa da dirci? Continua a riguardarci o è stato sottratto alla nostra responsabilità? Se a questo dispositivo sembra difficile abituarsi, ci siamo però abituati a concentrare sugli occhi tutto ciò che prima passava anche da altro, dall’armonia dell’insieme, e così abbiamo incontrato occhi che sanno sorridere e abbiamo fatto sorridere i nostri, proprio sapendo che erano da soli sul nostro viso. E quasi ci siamo dimenticati di come noi vorremmo essere visti, ci siamo esposti nonostante quell’accessorio non-accessorio, volendoci mostrare per quello che siamo. Perché proprio quell’accessorio, rendendoci tutti uguali e quindi invisibili, forse ci ha spinto a cercarci, a scorgere nell’altro i segni della sua unicità, di ciò che è più profondo, nascosto, e non solo dalla mascherina. Con questa attenzione abbiamo colto quei gesti impercettibili, le risonanze del corpo, le vibrazioni familiari di una voce un po’ diversa, di chi conosciamo, ma anche dell’estraneo che ci è passato accanto.

Quegli occhi che sanno sorridere ci hanno ricordato, insieme a Sartre, che ciò che ci è rimasto non è solo un organo necessario alla percezione visiva, ma lo sguardo che può scendere a una certa profondità – oltre la mascherina e più a fondo, oltre ogni maschera sociale che ha confinato la nostra interiorità – e che inizia proprio quando si aprono gli occhi. È lo sguardo che appartiene alla possibilità, ci dice ancora Sartre, di ogni incontro con altri volti che sono il riflettente in cui il nostro si riflette, una lacerazione necessaria a farci conoscere. Anche dietro la mascherina un volto, per quanto incompleto, mancante, chiede di essere riconosciuto per riconoscersi. È questa la richiesta che fonda la nostra identità, che resta su quel confine in attesa dello sguardo che sappia smascherarla.

In un mondo sospeso e con i limiti di un volto a metà, possiamo sentirci reciprocamente assenti oppure appartenenti alla stessa condizione. In questa prospettiva l’anticonformismo di chi rifiuta la mascherina non è una affermazione di identità, ma solo l’incapacità di vedere nell’incontro con ogni altro da sé la possibilità di un volto che lo riguarda. Per qualcun altro, probabilmente, questo nuovo e strano incontro può essere l’occasione per esplorare quel territorio profondo che tendiamo ad ignorare, e a volte dimenticare, abituati come siamo a vivere fuori da noi, ma che è anche l’unico a poterci dire che l’identità prima di chiedere un “chi”, chiede un “dove”.

 

Si può sorridere con gli occhi, dici. Ed è vero. Ma dagli occhi passa anche il dolore. Se pensiamo a quelle interviste che hanno sempre puntato alla spettacolarizzazione del dolore, messo a favore di telecamera,  e che ora fanno i conti con la discrezione dei suoi segni che nessun primo piano – nel suo essere occhio artificiale – riesce a cogliere, possiamo dire che è cambiato anche il nostro rapporto col dolore nell’incontro con l’altro? E, se è così, questo nuovo incontro ha cambiato anche noi?

Maria Luisa Petruccelli

 

 

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TAG: Filosofia, identità, Jung, levinas, mascherine, Sartre, Volti
CAT: Filosofia, relazioni

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