Made in Italy: il confine della nostra nazione sappiamo dirlo solo in inglese

16 Aprile 2016

Quali siano i confini italiani ormai pare privo di senso discuterlo, domandarselo anche se vent’anni e più di Lega Nord hanno provato in ogni modo ad aprire crepe e in un certo senso anche a rivelare contraddizioni. È nota la crisi dello Stato Nazione, ma è anche evidente come questa struttura sia oggi l’ultimo orpello a cui, soprattutto in Europa, i cittadini e i relativi governi si aggrappano per darsi identità e un senso di comunità. In questo movimento reazionario che sta attraversando l’Occidente, la situazione italiana contraddittoria, confusa e a tratti ferocemente elitaria potrebbe rivelarsi in realtà una via possibile.

La penisola è cosparsa ormai da anni dalla retorica del Made in Italy, un discorso veritiero ma untuoso quando cavalcato da figuri non propriamente disinteressati per non dire collusi con affari e relazioni che con il Made in Italy non solo non hanno nulla a che fare, ma spesso sono in totale contrapposizione. Eppure proprio questa etichetta è potenzialmente il veicolo ideale per definire spazi e confini culturali e quindi a cascata sociali ed economici.

Superando dunque l’inquietante paradigma proposto da Luca Cordero di Montezemolo o Oscar Farinetti di turno, viene urgente e necessario indagare le tracce di un percorso culturale che ha attraversato e ancora oggi attraversa accademia e impresa. L’Italia contemporanea ha così – possiamo dirlo – i confini dettati dal proprio Made in Italy, la sua identità sta tutta in questa forma organica di pensiero e di diffusione.

A compiere un’analisi accurata sul tema è Daniele Balicco che cura Made in Italy e cultura. Indagine sull’identità italiana contemporanea (Palumbo, 2016), un volume necessario che fa il punto sullo stato culturale italiano, scacciando dal proprio sguardo ogni possibilità di pacchiana retorica. Il volume attraversa vari ambiti del contemporaneo italiano dal design all’economia, dal cinema alla musica fino alla lingua e alla letteratura, una visione culturale globale in grado di far dialogare quello che spesso oggi gli intellettuali italiani guardano ancora con sospetto. Un volume che si occupa di cultura che sappia affiancare letteratura e agroalimentare è oggi in Italia una boccata d’aria capace seppur tra qualche limite di chiarire il campo e generare un discorso che oggi è sempre più frammentato e indebolito dall’eterna frammentazione che è causa e punto di slancio della tipicità culturale italiana.

Il volume non sfugge le contraddizioni tanto da dedicare un’intervista, forse un po’ troppo accondiscendente, a Oscar Farinetti che tuttavia rivela come il discorso retorico del Made in Italy non possa mai porsi slegato dagli aspetti sociali e politici: lo sguardo di un imprenditore e quello di un politico non possono disgiungersi. Certo questo può portare ad una forma di consociativismo perverso oppure a quell’idea meravigliosa di comunità aperta professata e praticata da Adriano Olivetti. Qualche dubbio resta, ma certamente qui si pone la questione e i contributi di Giovanna Verteva sui distretti industriali come quelli di Pietro Bianchi sul cinema allargano lo sguardo restituendo al lettore un senso di comprensione di cittadinanza che da troppo tempo latita o in alternativa è ridotto al gonfiore di un petto pieno d’aria.

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Un volume dunque per certi versi fondamentale e che come scrive puntualmente Daniele Balicco nella prefazione: quello che è importante non è solo capire, in modo analitico e circostanziato, come questo processo industriale ed estetico, culturale e politico, si sia sviluppato e di quali contraddizioni sociali sia possibile soluzione o effetto. La questione centrale, in realà, per lo meno se si vuole iniziare ad affrontare la cristi d’identità che stiamo attraversando, è piuttosto quella di studiare le ragioni del suo oggettivo disconoscimento”. Già perché se da un lato l’Italia è sostanzialmente oggi una forma viva di produttore di desiderio, tuttavia internamente, nel suo corpo culturale e principalmente umanistico vive fortemente il conflitto per non dire la tragedia del fallimento della sfida con la modernità. E in questa contraddizione Balicco vede con chiarezza il limite sia di un sistema, ma anche di una classe intellettuale (principalmente di formazione umanistica) che in realtà proprio nel momento in cui è intervenuta in un’assidua critica del contemporaneo si è rifugiata nella modernità perdendo per sempre l’attimo, il momento, in sostanza l’esistente.

Made in Italy e cultura si pone così come il tentativo di formulare l’identità italiana attraverso quella che definisce come la lingua del desiderio, tuttavia pur rimanendo valide le premesse e preziosa la contestualizzazione, lo studio sembra troppo legato ad una forma di pensiero cristallizzato che oggi difficilmente può trovare terreno fertile su cui crescere. Vero che i pezzi necessari sono tutti presenti, ma è proprio l’idea di una costruzione più che di un fiorire organico che lascia perplessi. Il rischio insomma è di ripercorrere vecchi schemi già fallimentari, certo prima c’era l’esercizio della critica ora quello di un coinvolgimento attivo dello sguardo diciamo così umanistico nella produzione di pensiero e di identità. Un volume quindi prezioso e necessario che seppure nei limiti non può essere ignorato, da qui si parte.

Uno sguardo traverso ce lo propone un libretto interessante che sembra fare da contraltare poetico all’analitico volume curato da Balicco, si tratta del libriccino di Carlo Mollino, Giappone 1970 (Humboldt Books, 2016). Il libretto propone una serie di scatti dal Giappone di Mollino, architetto ed umanista sempre più centrale in quella ridefinizione del percorso culturale italiano del Novecento. Mollino arriva in Giappone per seguire l’Esposizione universale, siamo nel maggio del 1970 e il paragone con l’oggi salta subito all’occhio.

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Il confronto è quello con un’economia rigogliosa rinata dalle macerie come quella giapponese di quegli anni e soprattuto con una modernità che oggi ha pienamente eliso il proprio spazio di senso, ma che allora permeava ogni ambito della vita culturale e quotidiana. Mollino scarta e le sue fotografie interpretano invece quel tempo restituendo al lettore di oggi (un po’ voyeur) l’istante, il contemporaneo che supera l’ideologia del moderno divenendo ponte sull’oggi. Nel bellissimo contributo di Fulvio Ferrari che segue le fotografie si legge: «Appare in generale come Mollino non cerchi la bella fotografia. È un uomo freddo che compone: tiene i particolari in primo piano per dare profondità alla visione. Rette e curve armano le sue immagini».

Pezzo bellissimo quello di Ferrari che spiega in poche righe il senso di un’operazione culturale che è ovviamente prima di tutto pensiero, mise-en-scène di un’attitudine che è sì fredda, ma perché naturale.  Il metodo di Mollino sfugge le contraddizioni accogliendole ed evita la cristallizzazione generando – in questo caso con delle fotografie semplici, per certi versi turistiche – un pensiero continuo, mobile, vivo. La curiosità lo guida e il desiderio lo libera dagli impedimenti della formalità.

Mollino supera la forma e fa del suo sguardo pura sostanza mostrando come anche nel caso di Made in Italy si parli di qualcosa che sta dentro, ma vive fuori e che da fuori e solo da lì può essere ripreso e reinterpretato.

Forse alla fine avevano ragione gli uggiosi intellettuali italiani novecenteschi? No, assolutamente e questo lo avevano già chiarito a suo tempo figure come Franco Fortini, Adriano Olivetti e Franco Basaglia per fare tre nomi vicini e lontani. L’errore è stato invece guardare dentro e non fuori, fissare le radici senza capire il fruscio delle foglie.

TAG: Carlo Mollino, Daniele Balicco, Giappone, Pietro Bianchi
CAT: Fotografia, Innovazione

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