Cosa fa il Giappone? Cosa fa il Venezuela?

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2 Febbraio 2019

In una lettera alla moglie del 19 novembre 1928, Gramsci citava il caso di un giovane operaio che gli faceva visita ogni sabato sera, tormentato da quanto capitava in Giappone, Paese tanto lontano nell’atlante geografico quanto vicino alle sue personali mappe mentali. Il Giappone diventava nella mente di quell’operaio un’entità tormentatrice fiabesca ma anche un “chiodo fisso”, ad un tempo un luogo della fantasia, ma anche della realtà di ogni giorno, che da un momento all’altro poteva inverarsi in casa propria, tra la Dora e il Po, o fuoriuscire come dalle soffitte di Nonna Speranza.

Premesso che il nostro fantastico popolo italiano ha del mondo grande e terribile visioni spesso di tipo “operistico”, tanto attraenti quanto vaghe, sfocate e flou, alla “Turandot”, alla “Butterfly”, occorre rimarcare che questa “funzione Giappone”, in cui una contrada lontana acquista i riflessi di una proiezione, ma anche di una premonizione, di un desiderio riflesso come di un incubo temuto, è apparsa spesso nel discorso pubblico italiano e ha avuto i nomi di volta in volta della Cina (ricordo un film: la “Cina è vicina”), di Cuba, della Palestina, del Chiapas del Subcomandante Marcos, del Venezuela di Chávez o di Maduro, della Russia prima di Lenin, poi di Stalin (“Addavenì Baffone”), ora di Putin ecc. ecc.

Su questo “nazionalismo trasposto” George Orwell scrisse nel 1945 un saggetto intitolato “Appunti sul nazionalismo” raccolto “Nel ventre della balena” e opportunamente rammentato da Matteo Marchesini in un post su Facebook (dove io lo lessi due anni fa) e che ritrovo adesso nel saggio “Casa di carte” appena uscito per Il Saggiatore. Cito per comodità redazionale  da Marchesini.

《George Orwell parla di «nazionalismo trasposto», e osserva che questa «trasposizione» mette un intellettuale «in condizione di essere molto più nazionalistico, volgare, sciocco, pernicioso, disonesto di quanto mai potrebbe essere nei confronti del suo paese natale o unità della quale abbia un’autentica conoscenza». E così continua: «Quando si leggono le corbellerie presuntuose e servili che si scrivono su Stalin, l’Armata rossa ecc. da parte di persone sensibili e intelligenti, si comprende che ciò è possibile solo perché è in atto un processo di trasposizione. Nelle società come la nostra è inconsueto per chiunque sia un intellettuale provare un attaccamento profondo per il proprio paese. L’opinione pubblica – almeno quella parte che lo riconosce tale – non glielo permetterebbe. Poiché la maggior parte delle persone che lo attorniano sono scettiche e apatiche, egli adotta un atteggiamento camaleontico o vile: rinunzierà in quel caso alla forma di nazionalismo più diretta senza peraltro accostarsi a nessuna visione autenticamente internazionalista. Sente ancora il bisogno di una patria ed è naturale cercarne una all’estero. Avendola trovata, sguazzerà senza ritegno in quelle stesse emozioni dalle quali credeva di essersi emancipato. Dio, il re, l’impero, l’Union Jack – gli idoli rimossi riappaiono sotto mutate spoglie e poiché non è semplice riconoscerli possono essere incensati con la coscienza a posto. Il nazionalismo trasposto, come la pratica del capro espiatorio, è un modo di raggiungere la salvezza senza modificare la propria condotta».》

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Orbene questo atteggiamento mentale insorgente dalla “funzione Giappone” indicata da Gramsci e così ben descritta da Orwell ha assunto particolari coloritura ideologico-geografica in un personaggio pubblico come Di Battista, ideologo e viaggiatore, il quale esibisce movenze oscillanti tra la rigidità catafratta di un Giulietto Chiesa e i tratti variopinti di un Tartarino di Tarascona (sempre pronto con il “fucile” ideologico ad accoppare molti vecchi “leoni” della politica) in cui il “nazionalismo trasposto” acquisisce tratti intransigenti, umorali, grotteschi, tanto mirabolanti quando restano pure proiezioni mentali quanto imbarazzanti e cogenti allorché il lontano “Giappone” si materializza, diventa pressante realtà e appare ai bordi del Po, nel suo caso del Tevere.

Cosa fare col nostro “Giappone” di oggi, il Venezuela? E qui cascano molti asini, letteralmente. Urge prendere una decisione. Da che parte stare tra i due contendenti politici contrapposti Maduro e Guaidò ? Dibba come i 5s non lo sanno letteralmente: sono lacerati tra il sogno vago e indistinto dei viaggi mentali di una volta e la coercitiva e orripilante realtà di oggi. E salgono in soffitta di Nonna Speranza, tra i ninnoli mentali del passato, e preferiscono prendere tempo non decidendo nulla, sperando (come per la Tav) che il mondo tanto vagheggiato prenda le sue pieghe, sbrogli da solo le sue intricate matasse, vada per conto suo, in attesa di studi particolareggiati o di fatti compiuti, su cui poi saltare – come redivivi Tartarini – con il coltello in mano degli scannatori della realtà.

TAG: alessandro di battista, Giappone, Gramsci, Matteo Marchesini, venezuela
CAT: Geopolitica

Un commento

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  1. lina-arena 5 anni fa

    ho gradito il commento. Il giornalista è stato bravo. L’accostamento gradevole. Dibba ha procurato anche a me questa impressione. I libri che pubblica sono illeggibili. sono puerili, rivelano un’infanzia lacerata dal bisogno di fare politica. E per sua fortuna la sta facendo a spese degli italiani. E’ del tutto simile a De Maio ma con una certa grinta da supplente che spera di inserirsi nel gruppo. In foindo non mi dispiacciono. Rappresentano la novità che è venuta fuori dopo la fine dei partiti. Anche il PD espone queste figure di novellini come Calewnda figlio della regista Comencini che pensa di fare politica grazie all’ aura che lo accompagna per la notorietà della famiglia di origine. La verità si è che il capitalismo ha b isognoi anche di queste figure che rappresentano un trapasso verso forme moderne di gestione della società.

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