Nella crescente rivalità tra USA e Cina, cresce anche il numero di paesi che hanno deciso di non prendere posizione per l’uno o l’altro. È un fenomeno ben più importante quantitativamente e anche qualitativamente di quello dei cosiddetti “non allineati” degli anni 60 e 70, perché il mondo è diverso e perché lo scenario è molto diverso.
Ma chi sono i paesi di mezzo?
Cominciamo dal Sud-Est Asiatico: come le recenti visite a Pechino dei leader vietnamiti, malesi e singaporeani hanno confermato, l’ASEAN non ha alcuna intenzione di schierarsi anche perché, come dice un sagace commentatore del South China Morning Post, gli americani potrebbero sempre lasciare l’area visto che sono lontani, mentre la Cina resta. I paesi ASEAN considerano preoccupante la situazione di tensione nel Mar Cinese Meridionale, con la crescente presenza di navi militari americane e cinesi, e ultimamente vari leader dell’area hanno lasciato trapelare che ritengono il cosiddetto Aukus (l’accordo tra Regno Unito Australia e USA per fornire sottomarini nucleari all’Australia) una escalation pericolosa. Allo stesso tempo però non hanno interesse a vedere scomparire la presenza militare americana, ma spingono per un Codice di Condotta per il Mar Cinese Meridionale che vincoli anche la Cina. L’ASEAN inoltre ha firmato un importante accordo commerciale con la Cina due anni fa che è già entrato in vigore; gli USA non hanno mai offerto niente di paragonabile perché gli accordi di libero scambio non vanno giù alla working class americana.
Passiamo al Medio-Oriente: qui la Cina ha fatto molti più proseliti di quanto immaginiamo. L’accordo Arabia Saudita-Iran mediato dalla Cina le ha aperto ulteriori spazi. L’Arabia Saudita di recente ha anche espresso interesse a vendere petrolio a Pechino usando la valuta cinese ed entrare come osservatore nella Shanghai Cooperation Organization. Le imprese cinesi sono fortemente presenti a Dubai e in tutta l’area. Allo stesso tempo però i paesi del Golfo mantengono rapporti accettabili se non buoni (vedere il tanto vituperato Qatar) con gli USA.
Spostiamoci poi in Africa. Che dire? Non viene in mente un singolo paese africano che abbia deciso di escludere le aziende cinesi dalla propria economia per sostituirle con quelle americane tanto più in un momento in cui le esportazioni africane verso la Cina crescono. Su questioni di politica internazionale, molti paesi africani si allineano di solito a posizioni occidentali, ma si riservano di dissentire quando non sono convinti (vedere i vari voti sull’Ucraina all’ONU) e soprattutto tengono le porte aperte alla Cina, con maggior attenzione magari del passato a non cadere in alcune situazioni debitorie insostenibili. Anche perché solo le aziende cinesi sono in grado, per struttura ed esperienza, di portare avanti progetti infrastrutturali o minerari in paesi africani complessi o ad alto rischio.
Finiamo con l’America Latina: la presenza cinese nel continente è ormai più che ventennale. Argentina, Cile, Brasile hanno ottimi rapporti specie perché riforniscono Pechino di tutta una serie di prodotti alimentari e minerari fondamentali sia per il loro export che per l’economia cinese. Ultimamente, si è parlato anche di vendita di aerei da combattimento cinesi all’Argentina così come anche di un ingresso di questo paese nei BRICS, il raggruppamento alternativo al G7 (personalmente, preferisco il G20 a questi raggruppamenti diversi, ma tant’è). Anche l’America Latina quindi, pur essendo considerata da sempre “cortile” degli USA non prende posizione, anzi. Lula andrà a breve a Pechino con 70 aziende e l’ex presidente del Brasile Roussef è diventata presidente della New Development Bank (vecchia “BRICS bank”) trasferendosi a Shanghai.
Che dire infine dei paesi che sembrano più schierati con gli USA? Giappone e Corea sono chiaramente su posizioni americane. L’India è un enigma: la rivalità con la Cina è ovvia, sia per questioni territoriali di confine sia per questioni economiche anche se nella loro storia hanno avuto solo una guerra, ma Delhi sembra giocare una partita molto sua, come è ovvio per un paese che aspira ad essere la prossima Cina. Quanto gli USA possano contare sull’India per esempio per implementare le misure più aggressive verso Pechino resta da vedere, così come pesano gli ottimi rapporti tra India e Russia.
E l’Europa? Le posizioni tendono a variare a seconda del paese, c’è chi è più in “paese di mezzo” e chi invece come l’Italia ha deciso di seguire pedissequamente le posizioni americane. La Commissione, che per necessità deve essere un concentrato di tutte le posizioni, ha elaborato infine questa strana teoria del “de-risking not decoupling” che può significare tutto e il contrario di tutto.
Questo è il quadro globale, e ci pone una domanda fondamentale: con gran parte dei paesi del mondo di fatto su posizioni “di mezzo” e l’India su posizioni solo sue, quanto potrà resistere anche la posizione europea?
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