Non sono i morti a lodare l’Eterno, né coloro che scendono nel silenzio (Salmi 115:17)
Il primo suono del funerale di Ben Sussman, che aveva 22 anni ed è uno dei tre soldati dichiarati morti combattendo domenica a Gaza è un silenzio solido, organizzato, voluto. Dalle 10,30 dell’indomani mattina tutto il quartiere, tanti suoi compagni di sinagoga – uno dei minyanim ortodossi moderni ed egalitari di questa zona di Gerusalemme, Katamon – stanno in piedi con le bandiere di Israele in attesa che la famiglia esca dalla sua casa, nella piccola rechov harav Chen piena di fiori tardivi – una deliziosa piccola via in discesa (o in salita) fra Rechavia e Katamon dove ho abitato anche io in uno dei miei anni studenteschi. Il silenzio è rotto da Sarit, di mestiere story-teller, “contastorie”, e per destino la madre “orbata di figlio”, (ossia l’opposto di “orfana”, parola biblica che in italiano non ha un equivalente, forse perché non prevista nel naturale ordine delle cose) del sergente maggiore Sussman, che emerge dai gradini in salita della sua casa e dice alla folla radunata nella piccola via: “Cantiamo la hatikvah, a Ben sicuramente fa piacere”. Tutta la via inizia a cantare l’inno nazionale della speranza bimillenaria, in tre o quattro tonalità diverse, finché una prevale sulle altre e si trova una qualche intonazione fra quelli ai piedi del colle e quelli in cima.
Conclusa la minuscola cerimonia di strada improvvisata, la numerosa famiglia e tutti i convenuti salgono sulle auto e sui pullman organizzati ad hoc e si dirigono a Har-Herzl, al cimitero militare sul monte che porta il nome del primo che ha avuto la folle idea di tornare qui – o di venirci – dall’Europa e dal resto del mondo, un centinaio e qualcosa d’anni fa. Io sono fra loro, assieme ad amici che ricordano Ben bambino, appena una dozzina d’anni fa, nella sinagoga del quartiere. C’è un palloncino ormai mezzo sgonfio, azzurro, impigliato fra gli alberi del cimitero, dalle foglie solo un po’ gialle che brillano nel sole di questa giornata dalla luce autunnale ma dal calore quasi estivo. Siamo tantissimi, in t-shirt e sandali, molte centinaia di donne, uomini, giovani, anziani e soldati, religiosi e laici. Il padre canta – senza parole, solo la melodia – im eshkakhekh Jerushalaim, verso 5 del Salmo 137: “Se ti dimentico, Gerusalemme”, ciò che tradizionalmente lo sposo dice al termine di un matrimonio ebraico, prima di calpestare un bicchiere in ricordo della città santa. Impossibile non pensare che quelle parole risuonano qui perché non verranno pronunciate dove avrebbero dovuto esserlo, magari fra qualche anno, ossia alla chuppah, al baldacchino nuziale che per Ben non verrà mai eretto.
È difficile guardare da dentro e assieme da fuori, essere consapevoli del fascino pericoloso e fatale della guerra, stare accanto a compagni che piangono e mantenere nel cuore vigile la domanda – assolutamente non retorica, necessaria – sul perché della guerra. Mentre si cala la bara risuonano parole come “Buono è morire per la nostra patria”, che gli israeliani mediamente (ho indagato in altri tempi, non sospetti) pensano siano invenzione di Yosef Trumpeldor e non del poeta latino Orazio, un pagano. Subito dopo il kaddish – recitato dalla madre e dal padre – è ancora Sarit a prendere la parola: “Ve lo dico da story-teller: questa storia andrà a finire bene, c’è un lieto fine, perché noi questa guerra la vinceremo, noi che amiamo la vita, noi che santifichiamo la vita, noi che non siamo quei codardi vigliacchi barbari nazisti che santificano la morte. Vinceremo noi!”. E io – che in nessun modo sento di poter giudicare i pensieri e le parole di una madre che sta seppellendo un figlio – non riesco a ignorare il fatto che la retorica della guerra è un balsamo che permette di sopportare una vita in cui chi è uscito dalle tue viscere è ora sotto terra mentre tu ancora stai sopra ad essa, e che così facendo permette di continuare un gioco in cui sempre in eterno si muore e si dà la morte. Sulla via del ritorno parlo dei cesarei praticati a lume di cellulare perché l’ospedale di Gaza non ha più la corrente elettrica con un’amica ginecologa, il cui marito, medico anch’esso, è volontario in riserva e a breve entrerà a Gaza e con un amico islamologo e rabbino che dall’inizio della guerra è stato intervistato centinaia di volte da emittenti europee in lingua araba che vogliono “l’ebreo da Gerusalemme” per apparire equilibrati e obiettivi, anche se poi lo fanno parlare pochi minuti in coda e sempre delle stesse cose, “per uscire d’obbligo”. Mi spiegano che quello che Israele sta facendo è come una procedura medica dolorosa ma necessaria per salvare la vita del “paziente” (due ragazzine dietro di me mentre scendevamo i gradini del cimitero poco fa hanno usato quasi la stessa immagine sempre per descrivere il tentativo di sradicare Hamas da Gaza: “Dobbiamo strappare il cerotto tutto in una volta, anche se fa male”. Ho sorriso: tutti conosciamo la sensazione, per questo la metafora funziona). “Noi amiamo la vita e la proteggiamo: un salmo che cantiamo ogni capo-mese e nelle feste ebraiche più importanti dice Non sono i morti a lodare Dio, né quelli che scendono nel silenzio, mentre una cultura che vede questo mondo come un inutile preambolo a quello che verrà dopo, una religione per cui la vita vera è quella eterna e Quelli che muoiono per Allah vivono per sempre (questo verso del Corano mi cita in arabo l’amico rabbino studioso di Islam) toglie all’essere umano responsabilità e speranza, gettandolo in un fatalismo disperato dove morire è dolce e il martirio omicida è la massima aspirazione”.
Così mi ripetono tutti gli amici di qui, anche i più a sinistra, e anche quelli che fino a due mesi fa lavoravano quotidianamente per la pace e la coesistenza hanno cambiato mestiere. Sabato sera sono in uno dei locali all’aperto del mercato, il shuk di machane Yehuda, forse il mio luogo preferito a Gerusalemme, a mangiare waffles e bere sidro caldo con due amici, uno dei quali, il mio compagno di studi talmudici alla yeshivah, Hanan, rabbino e cantante d’opera, è appena uscito da oltre un mese di servizio militare in un’unità sceltissima nel West Bank e racconta cose da torcere le budella, come la storia di un ragazzo palestinese con la sindrome di down caricato di esplosivo e spedito dai terroristi a camminare verso il confine apposta perché i soldati israeliani gli sparino. (I commilitoni del mio amico gli hanno sparato, per la cronaca, ma “solo” a una gamba, per neutralizzarlo senza ucciderlo e immediatamente dopo lo hanno consegnato agli infermieri militari). La quantità di fucili al collo e sulle spalle di ragazzi e ragazze, in divisa e non, è pari all’eccitazione e alla sensualità che si respirano nell’aria. Io, che siedo accanto a Hanan e al suo fucile, bevo avidamente con le labbra il sidro e con le orecchie ogni sua storia dell’orrore, non ne sono immune. Dopo una decina di giorni trascorsi in Israele in guerra mi rendo conto di quanto attraente e seducente sia non la morte, ma certo la guerra, che la morte contempla e ammette fra le possibilità non remote. Resistere alle lusinghe di thanatos, così abilmente travestito da eros, e fuggire la pulsione di morte (di morte eroica, necessaria, giusta) che sempre ci attirerà sotto la terra è un costante lavoro che lascia stremati.
Eros e Thanatos, passione e morte, un senso di urgenza, emergenza, energia, vita, potersi occupare solo del qui e ora sono da sempre i premi più irrinunciabili del vivere in guerra: Forte come la morte è amore, dice il Cantico di Salomone, e mai come questo sabato sera capisco che cosa intende: il confine fra i due è fondamentale eppure a volte impercettibile, varcarlo è dolce. E fatale.
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