L’Arabia Saudita, in questo 2016 che inizia, rischia di essere la variabile più pericolosa. La decisione di procedere all’esecuzione capitale dell’imam sciita Nimr al-Nimr, insieme con altri 46 oppositori accusati di terrorismo, ha riacceso le tensioni fra con l’Iran. L’ambasciata saudita in fiamme a Teheran è un monito. Va detto subito che nessuno nell’establishment di Riad potrà dirsi sorpreso. È esattamente quello che volevano, sapendo benissimo che l’esecuzione di al-Nimr avrebbe fatto infuriare gli iraniani. D’altra parte, l’allontanamento di Washington, il fallimento del tentativo di rovesciare Assad e il reintegro dell’Iran nella diplomazia internazionale sono un duro colpo per Riad.
Eppure i conflitti in Siria, in Libia e in Yemen, proprio sul finire dell’anno in corso, hanno vissuto un momento di fitti colloqui che, almeno sulla carta, lasciano intuire un tentativo di ricerca di soluzioni. Motore dell’impegno al dialogo, almeno dietro le quinte, è stata l’amministrazione Obama che, direttamente o indirettamente, ha sostenuto, consigliato, promosso incontri e vertici internazionali.
Come se, a maggior conferma della totale assenza da parte di Washington della volontà di impegnare contingenti militari all’estero, gli Stati Uniti spingessero sul pedale dei colloqui e dei negoziati, nel solco di quanto accaduto alla Casa Bianca rispetto all’Iran e a Cuba.
Proprio il disgelo con L’Avana, nel quale ha brillato la mediazione di Papa Francesco, e con Teheran, sono i due risultati che Barack Obama ha appuntato all’occhiello, in un periodo storico nel quale il Medio Oriente e l’Africa sono scivolati in conflitti sempre più avviluppati.
Mentre la fine del chavismo in Venezuela e la crisi generale della stagione dell’America Latina dei leader che hanno caratterizzato gli anni Duemila come uno dei pochi laboratori sociali non arresi al turbo capitalismo tramonta (tiene solo la Bachelet in Cile), la svolta delle relazioni tra Cuba e gli Usa sono in fondo un finale annunciato.
Le opzioni alternative per Raul Castro erano ormai finite, la distensione e una lenta transizione dell’economia dell’isola verso il capitale globale era solo questione di tempo. Resta da vedere come sarà gestita questa transizione, ma il finale era noto.
Di sicuro meno scontata era la distensione tra il ‘Grande Satana’ e il regime degli ayatollah. In Iran, la vittoria di Rohani è sembrata subito un segnale al mondo, la fine della stagione della rigidità di Ahmadinejad e il tentativo dell’estabilshment di trovare una soluzione diplomatica alla crisi economica che stava strozzando la popolazione, con il rischio che implodesse la Repubblica Islamica.
Questa distensione, però, non è esente da rischi globali. L’Arabia Saudita, fin dal 2001, non può restare indifferente al riallineamento degli equilibri nella regione. Per Ryad, l’Iran è il male assoluto e non ha mai esitato a giocare la carta confessionale nel conflitto. Ecco che quella che è una lotta di potere regionale, oltre che un duro colpo alla legittimità della casa regnante saudita, da sempre messa in discussione dai leader iraniani, viene fatta passare per un conflitto sunniti – sciiti che insanguina sempre più il Medio Oriente.
Il problema è propri nelle dinamiche innescate. Perché anche a guardare con le migliori intenzioni possibili al cessate il fuoco in Yemen, ai colloqui di New York sulla Siria e all’accordo internazionale sula Libia, almeno nei primi due casi, le fratture create negli ultimi quindici anni all’interno del mosaico delle popolazioni rende complicato, per non dire impossibile, un ritorno al passato.
Daesh, in questo senso, sembra essere il nemico ideale per tenere assieme quel che assieme non può stare. Il califfo al-Baghdadi, come hanno scritto più o meno tutti i media mainstrem in questi giorni, perde terreno e per compensare lancia appelli nei quali sottolinea la forza intatta delle sue legioni e invoca squilibrati vari a colpire in Europa. Può anche essere, ma contro Daesh si muova una propaganda uguale e contraria.
Perché i bombardamenti russi in Siria stanno solo massacrando civili e perché la liberazione di Sinjar e di Ramadi in Iraq sono obiettivi positivi, ma ottenuti da partner divisi per agenda presente e futura. Milizie sciite e milizie curde, che vengono accostate sotto la pecetta dello stato iracheno, sono altro. E non diventeranno un’unione solo per aver combattuto Daesh.
Il 2016, quindi, è un’incognita, che rischia di chiudere la partita evidente, Daesh appunto, per scatenare quella latente, che ha molti più attori coinvolti e che potrebbe avere esiti imprevedibili e inquietanti. Per almeno un anno, perché la nuova amministrazione Usa che subentrerà a Obama non è detto che mantenga il disimpegno del suo predecessore.
Per ora, però, la situazione sul campo resta incandescente. In Siria si volge a un accordo, che probabilmente taglierà fuori la parte migliore della rivoluzione siriana, quella che andava sostenuta fin dall’inizio. E tutto accadrà, con o senza Assad, con una sostanziale riabilitazione del regime sostenuto da Hezbollah, Iran e Russia.
Arabia Saudita e Turchia non possono accettare senza battere ciglio questa soluzione. Che non significa opporsi, perché ci sono movimenti ai quali è impossibile opporsi, ma di sicuro non saranno collaborativi, concentrandosi maggiormente sugli obiettivi alla loro portata: lo Yemen e le milizie curde.
In Libia, invece, l’accordo sembra parecchio lontano. Quel che non si coglie in pieno è quanto davvero contino le personalità che hanno firmato l’accordo, chi rappresentino, chi gli obbedirà per cessare il fuoco. E in un mosaico così frammentato per milizie e interessi locali, un accordo quadro che riesca a essere effettivo sul terreno pare lontano.
E non si può ignorare che la caduta del regime di Gheddafi non ha solo destabilizzato la Libia, ma tutta la fascia del Sahel, portando in Africa una nuova ventata di conflitti, di armi e di gruppi radicali di cui non si sentiva il bisogno. Un nuovo potenziale scenario in logoramento che potrebbe richiedere un impegno imprevisto a molti attori globali.
Mentre in Afghanistan la variabile Daesh è ormai sul terreno, in modo sempre meno nascosto, e il movimento dei talebani – lacerato dalla concorrenza e dalla successione al mullah Omar – attacca in ogni occasione la parvenza di governo che è sempre più una ridotta di Kabul. E anche qui, dopo anni passati a parlar di ritiro, potrebbe tornar di moda l’occupazione militare per sostenenre il fragile Ashraf Ghani.
La sensazione è che il 2016 potrebbe vedere palesarsi in maniera sempre più evidente le divisioni internazionali così come sono emerse in questi anni, senza più la copertura dei conflitti generali. Confluendo in un quadro più complesso ancora, anche grazie al ruolo che Israele continua a giocare, perché l’omicidio mirato di Samir Kuntar – avvenuto nei giorni scorsi – rischia di infiammare di nuovo (come nel 2006) il confine con il Libano.
Quello che sarebbe auspicabile, visto che in passato si è visto come l’intervento Usa all’estero non risolve – anzi complica le questioni – è che l’impegno diplomatico della Casa Bianca continui, ma sia affiancato da un’azione negoziale finalmente incisiva e coordinata da parte dell’Europa. Fino a quando a Bruxelles si preoccuperanno solo dei sondaggi quando si parla di profughi e migranti, senza una azione diplomatica internazionale seria, il futuro non sarà roseo.
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