Strada in salita per la pace in Siria

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27 Dicembre 2015

Venerdì scorso, durante un bombardamento aereo nei pressi di Damasco, è rimasto ucciso Zahran Alloush, leader dell’ Esercito dell’Islam: organizzazione militare di ribelli anti-Assad, spalleggiata dall’Arabia Saudita e non del tutto estranea a collegamenti con Al Qaeda. Una milizia che raccoglie al momento alcune migliaia di combattenti e che si inserisce nell’indistinto caos di gruppi armati, protagonisti della guerra civile siriana da ormai cinque anni.

Non è ancora del tutto chiaro chi sia l’artefice del bombardamento: se le forze governative siriane o l’aviazione russa, da mesi impegnata nella regione, ufficialmente per combattere l’ISIS ma anche per difendere il fronte sciita da un possibile cedimento della Siria. Come che sia, l’evento si presenta gravido di conseguenze: non solo sul fronte internazionale  (con le consuete accuse che prevedibilmente si scambieranno Putin e Obama). Ma anche su quello interno: e difatti Sam Dagher, sul Wall Street Journal, evidenzia come l’uccisione di Alloush potrebbe mettere a rischio i negoziati di pace difficoltosamente pianificati per tentare di porre fine alla guerra siriana.

Appena pochi giorni fa, l’ONU ha difatti emesso una risoluzione finalizzata alla stesura di una road map che possa condurre a un processo di pace. Un intento arduo, che ha dovuto sin da subito scontrarsi con due problemi principali. Innanzitutto la questione dei ribelli: come accennato, la Siria è attualmente divisa in un nugolo di fazioni armate. E cercare di differenziare i gruppi politicamente moderati da quelli vicini al terrorismo islamista appare impresa non soltanto difficile ma addirittura disperata. La baraonda è tale che tutte le varie milizie vengono sostanzialmente inghiottite da una ciclopica zona grigia, all’interno di cui è fondamentalmente impossibile per l’Occidente attuare una chiara distinzione tra amici e nemici.

In secondo luogo, abbiamo il problema di Assad. Da anni terreno di scontro tra Barack Obama e Vladimir Putin, il destino del presidente siriano è questione assolutamente dirimente in seno alle trattative di pace. Da una parte, Russia e Iran lo appoggiano fermamente, nel loro disegno di salvaguardia del fronte sciita in Medio Oriente. E se anche Putin alla fine dovesse acconsentire a una sua rimozione, c’è da giurarci che vorrà avere voce in capitolo sulla scelta del  successore. Un’ipotesi che la Casa Bianca sembrerebbe stia tacitamente accettando. La posizione duramente anti-Assad che caratterizzava Obama sino ad alcuni mesi fa, è venuta difatti recentemente smorzandosi. Per quanto abbia ribadito la necessità di destituire il presidente siriano, in una conferenza stampa tenuta proprio venerdì scorso, Obama ha sostenuto che il processo di transizione debba risultare il più inclusivo possibile: tutelando non soltanto i diritti della minoranza sciita ma anche le prerogative di Russia e Iran.

Una posizione piuttosto remissiva, che nasce come conseguenza della recente politica mediorientale portata avanti da Washington. Da una parte, il graduale disimpegno obamiano nella regione, ha permesso a Putin di ampliare la propria influenza politica in Medio Oriente: e questo non soltanto in seno all’universo sciita ma anche in riferimento a Israele. La forza contrattuale del Cremlino è pertanto notevolmente aumentata nel corso degli ultimi dodici mesi: e questo impedisce adesso a Obama di adottare un qualsiasi approccio unilaterale nei suoi confronti (a maggior ragione per quanto concerne la questione siriana). Dall’altra parte, poi, la Casa Bianca non può permettersi una crisi con Teheran: una crisi che, laddove si palesasse, minerebbe alla base quel Nuclear Deal fortemente voluto dallo stesso Obama e da lui considerato il fiore all’occhiello della propria politica estera. E una sua sconfessione, con le elezioni presidenziali alle porte, significherebbero guai per il Partito Democratico.

Sennonché, la risoluzione dell’ONU muove da un assunto basilare: il coinvolgimento delle varie parti in causa (da Assad ai ribelli), che dovrebbero infine riuscire a trovare un accordo sul cessate il fuoco. Un assunto di sempre più difficile realizzabilità, soprattutto dopo l’uccisione di Alloush, considerando in particolare il fatto che l’ Esercito dell’Islam risulti ad oggi tra i gruppi armati più numerosi e influenti nella regione. Non sappiamo se dietro la sua morte vi sia un intento lucido per far saltare i negoziati. Certo è che se Obama accuserà adesso il Cremlino di fare i suoi interessi anziché colpire l’ISIS (ricordando che Alloush si era sempre dichiarato accanito nemico del Califfato), con ogni probabilità Putin replicherà mettendo in evidenza il doppiogiochismo del defunto leader sunnita: acerrimo nemico di Al Baghdadi ma comunque pronto a intersecare rapporti ambigui con le cellule locali del qaedismo.

Sauditi e iraniani cercano di mettere le mani sulla Siria. E mentre Russia e America battibeccano, l’ISIS appare ben lontano dall’essere debellato. Perché alla fine, nonostante le chiacchiere, delle trattative di pace non sembra importare veramente a nessuno.

TAG: barack obama, Bashar Al-Assad, isis, vladimir putin
CAT: Geopolitica, Medio Oriente

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