L’Italia ai tempi della destra di fronte al caos

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2 Ottobre 2022

Il risultato delle elezioni politiche difficilmente rappresenterà uno spartiacque nella politica italiana. A dispetto della disperazione di molti, il prossimo governo non porterà l’Italia verso una deriva autoritaria e illiberale, di tipo russo o ungherese, e non romperà i buoni rapporti in UE per far trionfare il nazionalismo sovranista sulla costruzione comunitaria. Passata la sbornia della campagna elettorale, e preso atto dei risultati degli elettori, si dovrebbe valutare l’operato del nuovo governo per quel che farà e, nell’attesa, per quelli che sono i messaggi e le indicazioni programmatiche che è possibile osservare. Giorgia Meloni è ben consapevole di prendere il timone dell’Italia nel bel mezzo di una guerra alle nostre porte e di una gravissima crisi energetica, intrecciata con dinamiche inflattive mai viste negli ultimi trent’anni, che porteranno ad una molto probabile recessione nel 2023. Allo stesso modo, è chiaro a (quasi) tutti come l’Italia sia inserita in un contesto geopolitico nel quale le alleanze e i rapporti internazionali sono punti di riferimento imprescindibili, con qualsiasi colore politico a Palazzo Chigi, e resteranno tali, anche nel nostro interesse.

Le dichiarazioni della futura premier nell’ultimo anno fanno immaginare che la continuità con il governo Draghi, su molte questioni, sarà forte. Abbandonati i toni barricadieri (quasi del tutto) e alcune posizioni ipernazionaliste espresse negli anni precedenti, Fdi si sta preparando a prendere in mano il governo, ben sapendo quali sono i “limiti” imposti, dall’esterno e dall’interno, alla guida politica di un paese come l’Italia. La lealtà al fronte atlantico sulla questione ucraina e l’intenzione di mantenere buoni rapporti in UE sono fuori discussione. Naturalmente questi buoni propositi andranno visti alla prova dei fatti, quando, ad esempio, il nuovo governo si dovrà cimentare con le leggi di bilancio e con l’attuazione delle riforme finalizzate al ricevimento dei fondi del PNRR, ove, indubbiamente, qualche nodo dovrà venire al pettine, considerate certe storiche posizioni in merito dei partiti che compongono l’attuale maggioranza. Una maggioranza in cui saranno con ogni probabilità gli altri soggetti, a cominciare dalla Lega di Matteo Salvini, a tentare di spingere l’esecutivo a politiche più di rottura, al fine di mettere in difficoltà la futura premier e rosicchiarne il consenso per reagire dopo la performance negativa di domenica scorsa. Per certi aspetti sarà interessante osservare quale sarà l’impatto di un governo tendenzialmente “moderato” e “realista” su un elettorato che, in buona parte, ha virato negli anni verso Fdi in virtù di sentimenti di protesta e ostilità verso il “sistema”. Giorgia Meloni si appresta a sperimentare, dopo Renzi, i grillini e Salvini stesso, l’estrema e frenetica volatilità delle scelte alle urne degli italiani, ormai in gran parte perennemente alla ricerca di un “nuovo” salvatore della Patria (e delle loro vite) a cui “votarsi”, puntualmente da esso delusi e di nuovo in rotta verso un altro destinatario delle proprie speranze. Probabilmente la Meloni è più scaltra e politicamente intelligente dei predecessori (almeno di alcuni di questi), ed ha negli occhi quel che è successo loro. Vedremo.

 

Quel che appare insopportabile, e francamente anche inaccettabile, però, è leggere improbabili “lezioni” di democrazia dall’esterno, da organi di informazione e financo uomini di governo di partners europei o dell’UE, intenti a “vigliare” sull’Italia o ad avvertire che si hanno gli strumenti per opporsi a chissà quale deviazione dall’ordine liberale e democratico. L’Italia è una salda democrazia, collocata nel “mondo libero” occidentale e nell’UE da più di settant’anni, caratterizzata da pluralismo istituzionale, decentramento amministrativo, pesi e contrappesi costituzionali, autorità indipendenti e infine da un dibattito mediatico ovviamente libero e spesso acceso. Spiace vedere che alcune ricostruzioni della realtà italiana, spesso basate su rappresentazioni caricaturali e non troppo informate delle nostre vicende, siano a volte utilizzate nel dibattito politico nostrano da una parte contro l’altra. Non succede di rado. Si dovrebbe avere più amor proprio e dignità nazionale. E non si dovrebbe neanche aver paura di dire che, pure nei complessi negoziati in UE, il primo dovere per chi rappresenta l’Italia è agire in base agli interessi nazionali. Con la cui locuzione non significa mettersi a battere i pugni (pugnetti, spesso) sul tavolo, sparare proclami in qualche video su Facebook o rivendicare in ogni dove chissà che cosa, ma semplicemente tener di conto che l’UE è un’arena in cui, in un contesto di valori e interessi condivisi, si confrontano le posizioni di ventisette stati, che necessariamente rispecchiano quelli che sono i rispettivi modi di pensare il mondo e l’Europa e, infine, i rispettivi interessi. Le vicende di questa settimana in merito alle iniziative da prendere in sede europea in materia di crisi energetica, a cominciare dalle decisioni del governo tedesco, lo dimostrano una volta di più. Draghi stesso questo lo aveva naturalmente ben compreso, e si comportava di conseguenza.

 

 

Infine, detto di chi andrà a governare, l’Italia avrebbe bisogno anche di un’opposizione in grado di presentarsi prima o poi come valida alternativa di governo. La crisi del Pd rischia di aver raggiunto un punto di non ritorno, non solo per lo scarso e deludente risultato elettorale, ma perché arrivato a quattro anni dal precedente fallimento e perché giunto al termine di anni in cui al Nazareno hanno ripetutamente dato prova di incapacità strategica e tattica. Il gruppo dirigente del Pd non è infatti mai riuscito a mostrare una chiara identità politica, in balia di suggestioni per improbabili “punti di riferimento” esterni (vero, Zingaretti?), ha dato largamente l’impressione di essere attaccato alle poltrone dei ministeri sempre e comunque (Orlando e Franceschini sono stati ministri in otto degli ultimi nove anni) e ha fallito miseramente nel costituire alleanze elettorali nel corso di un’estate in cui la linea intrapresa dal segretario Enrico Letta e approvata dall’intero partito, almeno formalmente, non è stata compresa da nessuno. Il grosso guaio, a sinistra (non solo in Italia), è la perdita del proprio elettorato storico di riferimento, che ormai pare irreversibile, per l’incapacità di elaborare proposte politiche in grado di tenere insieme le questioni sociali e il governo di un’economia di mercato. La stessa insistenza sulle tematiche ambientali, a volte espresse in modo ideologico e svincolato dalle ricadute sociali, e su questioni come i “diritti civili” e l’immigrazione, hanno fatto apparire il partito, più o meno giustamente, come il rappresentante delle classi agiate insensibile ai ceti popolari. Delusi dal Pd questi si sono rivolti in massa, oltre che al centrodestra e all’astensione (più di un italiano su tre non vota), al M5s, confermandolo come il primo partito del Meridione. Un “Movimento” che, sotto la guida di Giuseppe Conte, si è caratterizzato come il presunto nuovo alfiere del progressismo e delle istanze delle fasce sociali più disagiate, a suon di promesse di bonus, sussidi ed elargizioni, durante una campagna elettorale in cui l’avverbio “gratuitamente” è stato il termine maggiormente utilizzato. Il buon risultato di Azione e Italia Viva sotto la leadership di Carlo Calenda fa invece ben sperare chi auspica la nascita di un’importante soggetto riformista e liberaldemocratico, che possa rompere il logoro schema bipolare imperante negli ultimi trent’anni.

 

Qualunque siano le scelte di maggioranza e opposizione, l’autunno e l’inverno saranno estremamente complicati, sia per l’Europa che per l’Italia. Sarà necessario dismettere i toni da “guerra civile mediatica” che si sono osservati in campagna elettorale e, più in generale, negli ultimi anni, poiché, scrive Giuliano Ferrara su Il Foglio, “le guerre culturali di delegittimazione politico-ideologica e di difesa esistenziale del campo a noi affine dalla presenza profana dell’altro sono la base della crisi democratica, e … questo conflitto egemonico nega “l’ordine implicito” delle cose, la resistente e profonda base comune, nutrita dalla ragione illuministica, che ci aveva sempre impedito di disconoscere e considerare un pericolo attuale per noi il linguaggio morale degli altri, quelli dell’altro campo”. Si dovrà avere il coraggio di tralasciare i vessilli di parte per concentrarsi sulle emergenze nazionali, a partire dai rincari energetici e dalla conseguente incombente crisi produttiva, e per presentarsi quanto più coesi sia possibile nei confronti internazionali ed europei, perché in gioco c’è la tenuta dell’Italia. Come scrive Lucio Caracciolo su Limes, “anche chi è sideralmente lontano dalle idee di chi ci rappresenterà nel mondo non può che augurarsi che quel modesto margine di impatto sulla realtà di cui il nostro esecutivo potrà disporre sia speso al meglio. In tempi normali avremmo stabilito che alla peggio sarebbe caduto il governo. Qui sta o cade il paese”.

 

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