Russia-Ucraina: sembra la guerra dei trent’anni ma in realtà sono quattro secoli

10 Dicembre 2021

Il conflitto tra Russia e Ucraina, originato dall’occupazione russa della Crimea nel febbraio 2014 e dall’invasione, due mesi più tardi, del Donbas, è tornato recentemente a interessare le cronache internazionali.

Questa volta, a differenza di quanto accaduto nell’aprile scorso quando il Cremlino aveva ammassato un ingente numero di forze armate ai confini orientali e meridionali dell’Ucraina facendo temere un’altra offensiva nella zona orientale del Paese, la minaccia di un’invasione, peraltro su larga scala, sembra davvero credibile.

Secondo quanto riportato dai giornalisti Shane Harris e Paul Sonne, in un articolo sul Washington Post di venerdì 3 dicembre che cita fonti dell’intelligence statunitense, il Cremlino starebbe pianificando un’offensiva su più fronti già all’inizio del prossimo anno coinvolgendo fino a 175.000 soldati.

A detta del funzionario dell’amministrazione statunitense, che ha discusso confidenzialmente queste informazioni sensibili con il Washington Post, “i piani russi prevedono un’offensiva militare contro l’Ucraina all’inizio del 2022 con un numero di forze doppio rispetto a quello visto la scorsa primavera durante l’improvvisa esercitazione militare della Russia vicino ai confini dell’Ucraina”.

Tali piani – secondo il funzionario – prevedono un ampio movimento di 100 gruppi tattici di battaglione con un personale stimato di 175.000, insieme ad armi, artiglieria ed equipaggiamento.

A poche ore dalla pubblicazione dell’articolo del Washington Post, anche la testata tedesca Bild, citando questa volta fonti della NATO, parla di invasione su larga scala dell’Ucraina alla fine di gennaio, inizi di febbraio 2022 “se Mosca si sentisse sufficientemente forte per l’operazione”.

Nel pezzo della Bild si accenna addirittura all’eventualità che la stessa capitale ucraina, Kyiv, possa finire nel mirino del Cremlino.

Le indiscrezioni dei due giornali sono state puntualmente confermate dal Ministro della Difesa ucraino Oleksiy Reznikov che venerdì 3 dicembre, di fronte alla Verkhovna Rada (il parlamento monocamerale ucraino), citando un report dell’intelligence ucraina, ha sottolineato come la Russia abbia ammassato più di 94.000 soldati vicino ai confini del Paese e potrebbe prepararsi per un’offensiva militare su larga scala a fine gennaio.

Reznikov ha affermato che l’intelligence analizza tutti gli scenari, compreso il peggiore e che “l’escalation è uno scenario probabile, ma non inevitabile, e il nostro compito è prevenirlo, rendendo il prezzo dell’escalation inaccettabile per l’aggressore”.

Lo stesso concetto era stato espresso nella conferenza stampa online tenuta dal Ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba il 29 novembre.

Kuleba, dopo aver ricordato le “armi non convenzionali” usate in questi mesi dal Cremlino per destabilizzare l’Ucraina (la leva energetica con il Nord Stream 2, l’uso dei migranti al confine tra Bielorussia e Polonia, gli attacchi cibernetici, la disinformazione), aveva ribadito come Kyiv e i suoi partner (UE, NATO, OSCE) fossero al lavoro per rafforzare un pacchetto di deterrenza (economica, politica, di sicurezza) al fine di ridurre Mosca a più miti consigli.

La scorsa settimana in un meeting a Stoccolma anche il segretario di Stato americano Anthony Blinken aveva avvertito il Ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov che gli Stati Uniti e i loro alleati europei avrebbero imposto “gravi costi e conseguenze alla Russia se avesse intrapreso ulteriori azioni aggressive contro l’Ucraina”.

Al fine di analizzare correttamente questo conflitto, comprenderne le ragioni, le possibili evoluzioni e la sua rilevanza per gli equilibri geopolitici mondiali, è opportuno introdurre due variabili.

La prima variabile è la “legacy storica”. Ai fini della nostra analisi ci occuperemo degli ultimi 30 anni della storia ucraina, quelli dell’Ucraina indipendente, nella consapevolezza che i problemi che affliggono l’Ucraina odierna risalgono all’inizio del Settecento quando con la sconfitta dell’etmano Ivan Mazepa nella battaglia di Poltava (1709) iniziò la dominazione russa sulle terre dell’Etmanato.

Il secondo nodo cruciale attiene al ruolo del Presidente bielorusso Lukashenko che dopo anni di neutralità ha recentemente dichiarato il suo sostegno alla Russia in caso di escalation.

Indipendenza Ucraina

Quando il 24 agosto 1991 l’Ucraina proclamò l’indipendenza da Mosca, questa nuova nazione, che Andrew Wilson nel saggio intitolato The Ukrainians. Unexpected Nation (Gli Ucraini. Una Nazione Inaspettata), definì una sorpresa per le cancellerie, le università e i consigli di amministrazione occidentali, in Italia era, per così dire, più “inaspettata” che altrove. Il nostro Paese, che aveva sempre avuto un rapporto stretto e privilegiato con l’Unione Sovietica in ambito politico ed economico, ebbe difficoltà a concepire l’Ucraina come entità statuale indipendente.

Nonostante l’URSS fosse un’unione federale di 15 repubbliche, a cui la costituzione sovietica garantiva, in teoria, il diritto di recesso, l’intellighenzia italiana finiva spesso per identificare l’Unione Sovietica con la Russia. Unione Sovietica e Russia venivano frequentemente usati come sinonimi da politici e giornalisti generando equivoci e confusione nell’opinione pubblica. Equivoci che sarebbero continuati anche dopo l’implosione del gigante sovietico e che ancora oggi spiegano in parte l’assenza in Italia di studi approfonditi su questo cruciale evento della storia del Novecento.

Uno dei primi studiosi a intuire l’importanza in ottica geopolitica dell’indipendenza ucraina fu Zbigniew Brzeziński, politologo statunitense di origine polacca che in un saggio del 1997, destinato a diventare celebre, intitolato The Grand Chessboard: American Primacy and Its Geostrategic Imperatives, sottolineava come l’Ucraina costituisse un fondamentale pivot geopolitico nello scacchiere euroasiatico perché la sua stessa esistenza come Paese indipendente avrebbe contribuito a trasformare la Russia.

A detta di Brzezinski senza l’Ucraina, la Russia cessava di essere un impero eurasiatico e avrebbe potuto lottare per lo status imperiale prevalentemente nell’area asiatica, con maggiori probabilità di essere coinvolta in conflitti con i paesi dell’Asia centrale.

Tuttavia, se Mosca avesse ripreso il controllo sull’Ucraina – che all’epoca aveva una popolazione di   52 milioni di abitanti – con le sue risorse e il suo accesso al Mar Nero, la Russia avrebbe riacquistato automaticamente i mezzi per diventare un potente stato imperiale che abbracciava Europa e Asia.

Allo stesso tempo la perdita dell’indipendenza dell’Ucraina avrebbe avuto conseguenze immediate per l’Europa centrale, trasformando la Polonia nel perno geopolitico della frontiera orientale dell’Europa unita.

Le considerazioni fatte più di venticinque anni fa da Brzeziński risultano straordinariamente attuali oggi in uno spazio post-sovietico in cui le mire egemoniche di Mosca nei confronti dell’ex “repubblica sorella” si sono palesate senza infingimenti con l’occupazione della Crimea e la guerra in Donbas.

Crimea e Donbas

Il 1° dicembre 1991 si tenne in Ucraina un duplice appuntamento elettorale: le elezioni presidenziali e il referendum confermativo dell’indipendenza proclamata il 24 agosto 1991 dalla Rada di Kyiv con 346 voti a favore, 2 contrari e 5 astenuti.

In quella stessa sessione elettorale in cui Leonid Kravchuk fu eletto primo Presidente dell’Ucraina con il 62% dei voti sconfiggendo due ex dissidenti Chornovil (23%) e Lukyanenko (4,5%), il 92% degli ucraini si espresse a favore dell’indipendenza da Mosca.

La percentuale dei votanti fu pari all’84% e anche Donbas e Crimea, regioni che la propaganda del Cremlino dipinge come “russe”, votarono per l’indipendenza ucraina.

Se in Crimea la percentuale fu più bassa che nel resto del Paese (54%), nelle oblast di Luhansk e Donetsk – territori oggi parzialmente occupati dalla Federazione Russa – i consensi furono pari rispettivamente all’83,86% e all’83,9%.

Anche la minoranza russa che viveva in Ucraina si espresse a favore del distacco da Mosca (55%).

La presunta “russicità” di Donbas e Crimea è una delle narrazioni che accompagna questo conflitto ibrido sin dall’inizio.

È dunque opportuno fare chiarezza su questi temi. Partiamo dalla Crimea.

L’invasione della Crimea, paragonata, per metodi e finalità, dallo storico Timothy Snyder a quella della Cecoslovacchia da parte di Hitler negli Anni Trenta – in quell’occasione il pretesto fu la presunta tutela dei diritti della popolazione di lingua tedesca, in questo caso quella degli abitanti di lingua russa – è uno dei nodi chiave della grave crisi tra Russia e Ucraina.

Non sorprende dunque che la Crimea sia diventata uno dei campi d’azione privilegiati dell’opera di dezinformatsiya russa che ha cercato di giustificare un’aggressione militare a uno stato sovrano, l’Ucraina, con narrazioni storico-politiche e argomentazioni teoriche prive di fondamento.

Dipanare l’intricata matassa legata alla questione della Crimea è operazione oltremodo complessa in Italia, dove la lettura offerta su queste vicende è sempre stata palesemente viziata dalla narrazione moscovita, generando un pernicioso pregiudizio anti-ucraino.

Si prenda, a solo titolo d’esempio, l’intervista rilasciata il 25 luglio 2017 al Corriere della Sera dall’allora ambasciatore italiano a Mosca, Cesare Maria Ragaglini, in cui il diplomatico, sconfessando la linea ufficiale del governo Gentiloni, favorevole al prolungamento delle sanzioni alla Russia, comminate nel 2014 in seguito all’occupazione della penisola ucraina, sosteneva che “la Crimea non era il primo Paese che votava per la sua indipendenza in Europa”, dimenticando che la regione è parte del territorio ucraino e che un eventuale referendum per sancire la sua indipendenza da Kyiv andava concordato con le autorità ucraine.

Partiamo dall’affermazione secondo la quale la Crimea è sempre stata una terra russa.

Storicamente parlando la Crimea fu annessa dall’Impero Russo nel 1783, anche se la colonizzazione avvenne a partire dal 1853. Fu realmente russa dal 1853 al 1917. Con la formazione dell’URSS, poi, dal 1921 al 1945 divenne una repubblica sovietica separata. Dal 1945 al 1954 fece parte della Russia e dal 1954 al 2014 è stata ucraina. In sostanza è stata russa per 73 anni, ucraina per 60 anni, ma tatara per 400 anni.

Altro caposaldo della propaganda russa è la leggenda secondo la quale la penisola fu regalata nel 1954 all’Ucraina da un Nikita Khrushchev ubriaco.

All’inizio degli anni Cinquanta i leader sovietici si resero conto che la situazione economica della Crimea, annessa nel 1945 alla Russia, era particolarmente drammatica. La deportazione dei tatari ad opera di Stalin, le rovine della guerra e l’assenza di infrastrutture stavano trasformando la penisola in un autentico deserto.

Mosca decise allora di trasferirla all’Ucraina in modo che fosse Kyiv a provvedere alla sua ricostruzione e a una sua migliore gestione economica visto che la regione era diretta estensione del territorio ucraino. La Crimea, isolata dal territorio russo, era inoltre priva di acqua potabile. Il razionale di questa scelta fu fondamentalmente di carattere economico anche se venne presentato dai sovietici come un regalo per celebrare la fratellanza tra Russia e Ucraina a trecento anni dalla stipula del Trattato di Pereyaslav (1654).

Non si trattò di un dono, ma di uno scambio di territori – la Russia ricevette in cambio i fertili terreni della regione di Taganrog – e non fu opera del solo Khrushchev (sobrio o ubriaco che fosse), ma fu una decisione collegiale. In calce al documento che ufficializzava questo passaggio troviamo infatti le firme di Pegov e Voroshylov.

In pochi anni l’Ucraina dotò la penisola di moderne infrastrutture idriche ed elettriche, ricostruì sanatori, centri termali e alberghi sulla costa che permisero alla Crimea di diventare una delle località di villeggiatura più apprezzate dell’URSS.

Veniamo ora all’annessione del febbraio 2014.

Il vero colpo di stato, contrariamente alla narrazione russa, non avviene a Kyiv il 21 febbraio 2014, quando l’allora Presidente ucraino Yanukovych si siede a un tavolo negoziale con opposizione e rappresentanti della UE per cercare di porre fine alla grave crisi che ha infiammato l’Ucraina per tre mesi (salvo poi fuggire nel corso della notte lasciando un vuoto politico-istituzionale nel Paese), ma il 27 febbraio quando un gruppo di uomini armati prende il potere in Crimea.

Gli uomini armati che realizzano il golpe in Crimea sono membri della Berkut, la polizia antisommossa già nota per le violenze contro i manifestanti a Kyiv durante Euromaidan e membri paramilitari del gruppo ribattezzatosi Anti-Maidan.

I famosi omini verdi arriveranno invece la notte seguente, quella tra il 27 e il 28 febbraio quando inizierà, con la presa degli aeroporti di Sebastopoli e Simferopoli, l’invasione su larga scala dei militari russi. Sarà lo stesso Putin, due mesi più tardi, in aprile, a confermare, dopo un iniziale diniego, che gli omini verdi sono truppe russe.

Il definitivo passaggio della Crimea sotto il controllo diretto di Mosca prevede come atto finale un ‘referendum’, fissato inizialmente per il 25 maggio, giorno delle elezioni presidenziali ucraine, poi anticipato al 16 marzo.

Il risultato finale annunciato dalle autorità russe qualche ora dopo la ‘consultazione’ è davvero sorprendente e contraddice ogni logica matematica.

La percentuale degli abitanti della Crimea favorevoli al ricongiungimento con la Russia sarebbe il 96,7% e la percentuale dei votanti pari all’83,1%. Che la percentuale dei votanti superi l’80% è davvero poco plausibile dal momento che la popolazione della penisola è costituita per il 24% da ucraini e per il 13% da tatari. Difficile pensare che tatari e ucraini, già oggetto di intimidazioni e violenze nei giorni precedenti, siano andati a votare e abbiano votato a favore dell’unione con la Russia. Le cifre ufficiali sono contraddette anche da un report di un sito governativo russo che si occupa di società civile e diritti umani. Secondo tale fonte la partecipazione al voto dell’intera Crimea è oscillata, nei vari distretti elettorali, dal 30 al 50% e la percentuale degli elettori favorevoli all’annessione russa è compresa dal 50 al 60%.

Veniamo ora al Donbas (chi volesse approfondire i temi relativi alla guerra informativa russa in Donbas può consultare il report Donbas in Flames, realizzato da un gruppo di giornalisti investigativi, politologi, geografi e storici).

Prima dello scoppio del conflitto, il Donbas era conosciuto a livello internazionale quasi esclusivamente per le miniere di carbone e per la città di Donetsk, sede di uno dei più famosi club calcistici dell’Europa orientale, lo Shakhtar.

Il Donbas è appartenuto all’Impero Russo, ma ciò non è sufficiente per sostenere la sua presunta ‘russicità’ dal momento che quello stesso impero includeva, per esempio, Finlandia, Uzbekistan e addirittura l’Alaska.

Al contrario questa regione mineraria si è sempre contraddistinta per il suo carattere multinazionale. Il suo decollo industriale avvenne a fine Ottocento grazie all’imprenditore gallese John Hughes che nel 1869 fondò la città mineraria di Yuzivka (città di Hughes), dopo la morte di Lenin ribattezzata Stalino e poi nel 1961 Donetsk.

Nel suo complesso passato – scrive lo storico Serhy Yekelchyk in The Conflict in Ukraine – il Donbas non ha mai avuto una popolazione in maggioranza di russi etnici.

Il fatto che nel Donbas post-sovietico la lingua prevalentemente parlata sia il russo e i partiti più votati quelli filo-russi, è un “fenomeno che richiede una spiegazione politico- culturale, non di carattere etnico”.

Il nome Donbas è l’abbreviazione di ‘Donetsky Bassein’ (bacino del Donets), parola introdotta dall’ingegnere minerario Yevgraf Kovalevskyi, per delimitare i depositi di carbone nel bacino del fiume Siverskyi Donets.

La zona che ora costituisce il Donbas non apparteneva allo stato medievale della Rus di Kyiv e per questo motivo né l’Ucraina né la Russia possono rivendicarla come parte del loro antico patrimonio storico.

I governanti della Rus chiamavano queste immense steppe che cambiavano spesso ‘padrone’, ‘terre selvagge’ dal momento che erano controllate da potenti satrapi di origine nomade.

Quando nel 1240 la Rus di Kyiv venne rasa al suolo dall’orda tataro-mongola e il suo territorio finì in seguito sotto l’egida della Federazione polacco-lituana e del Principato di Moscovia, le dyke pole (terre selvagge) del Donbas, scarsamente popolate e abitate prevalentemente da cosacchi che scappavano dalla servitù della gleba, costituirono per lungo tempo una zona di transizione tra la Rzeczpospolita polacca (a nord-ovest), il Khanato di Crimea (a sud) e Mosca (a nord-est).

A metà del Seicento, all’epoca dei cosacchi zaporogi, la Russia iniziò a interessarsi per la prima volta delle terre selvagge a est di Zaporizhzhya stabilendo alcuni avamposti, ma i primi a insediarsi in modo permanente in Donbas nel Settecento, oltre agli ucraini provenienti dai territori limitrofi, furono i serbi e più tardi i greci. Fino ai primi dell’Ottocento la popolazione predominante nelle dyke pole erano dunque i contadini ucraini con la parziale eccezione delle città e di alcuni insediamenti russi nella parte più orientale.

Potremmo dire che la campagna, fino allo sterminio di massa dei contadini compiuto da Stalin con il Holodomor, fu sempre ‘ucraina’ e portatrice dei valori della cultura nazionale anche in Donbas.

Gli ucraini, come attestano i registri fiscali della popolazione nel Settecento e nell’Ottocento e il primo censimento generale dell’Impero Russo del 1897, divennero subito il gruppo etnico dominante dopo i primi flussi migratori del Diciottesimo secolo.

Fu il boom dell’industria mineraria di fine Ottocento a determinare la nascita delle prime città e il primo consistente afflusso di operai dalla vicina Russia. Prima di allora la presenza russa in Ucraina era minima. Il Paese era infatti abitato da ucraini, ebrei, polacchi, serbi e da tante altre minoranze etniche (tedeschi, cechi, bulgari, greci, tatari, etc).

Nel 1920, per effetto delle immigrazioni russe, gli abitanti del Donbas, che nel 1897 ammontavano a 700.000 unità sono aumentati a 2 milioni.

Alla fine degli anni Quaranta, l’effetto congiunto del Holodomor (1932-33) e della Seconda Guerra Mondiale ha creato un’autentica catastrofe demografica per gli ucraini. La presenza russa nel Paese aumenta, specie all’Est e in Donbas, di pari passo con la russificazione sotto forma di sovietizzazione.

La ricostruzione del Donbas, teatro di diverse battaglie durante la guerra – sia Hitler sia Stalin desideravano l’acciaio e il carbone della regione – è accompagnata infatti da un clima propagandistico che enfatizza, in barba a ogni evidenza storica, il ruolo fondamentale dei minatori nella vittoria della Grande Guerra Patriottica (1941-1945).

I censimenti sovietici del dopoguerra in Donbas fotografano la più alta percentuale di ucraini etnici che dichiarano come madrelingua il russo (17,8% nel 1959 e 26,6% nel 1970).

La singolarità del Donbas sta nel fatto che è l’unica regione dell’Ucraina sovietica in cui si registrano contemporaneamente una maggioranza di ucraini etnici e una preponderanza di gente che parla russo.

Il ruolo di Lukashenko

Lo scorso aprile, quando ci fu il primo assembramento di forze armate russe ai confini dell’Ucraina, diversi analisti si erano chiesti quale sarebbe stato il ruolo della Bielorussia, con un Lukashenko indebolito e delegittimato dopo le proteste di piazza del 2020, in caso di una escalation militare russa.

Sette anni fa, allo scoppio del conflitto, il Presidente bielorusso godeva infatti di una certa autonomia decisionale che aveva abilmente sfruttato per ritagliarsi il ruolo di mediatore tra Mosca e Kyiv. L’accordo per cercare di porre fine alla guerra in Donbas, raggiunto il 5 settembre 2014 dai rappresentanti di Ucraina, Russia, Repubblica Popolare di Donetsk (DNR), e Repubblica Popolare di Luhansk (LNR) fu firmato proprio a Minsk, sotto l’egida dell’OSCE.

All’epoca il dittatore bielorusso, che temeva un’invasione simile a quella degli omini verdi in Crimea, iniziò a diversificare la sua politica estera riallacciando il dialogo con UE e Stati Uniti.

A detta di Andrew Wilson, uno dei maggiori esperti di Bielorussia, Lukashenko “si reinventò come difensore della sovranità bielorussa, con la Russia definita sotto voce come la minaccia a quella sovranità”.

Dopo le contestate elezioni presidenziali del 9 agosto 2020 in cui viene accusato di frodi elettorali, Lukashenko è costretto, obtorto collo, ad abbandonare la politica del “doppio forno”.

Travolto dalle proteste di piazza organizzate dalla leader dell’opposizione Sviatlana Tsikhanouskaya, Lukashenko non è semplicemente un leader indebolito ma un vero e proprio cadavere politico il cui futuro è ormai nelle mani del Cremlino.

C’è una data chiave da tenere a mente nella vicenda bielorussa, è quella del 17-18 agosto 2020.

In quei giorni il Cremlino lancia la campagna di “assistenza russa” sotto forma di intervento ibrido.

Il 18 agosto due gruppi di consulenti politici, militari, di sicurezza e dei media russi arrivano a Minsk da Mosca per prendere il controllo della situazione in Bielorussia nelle principali aree pubbliche e di governo (media, settore sociale e politico, esercito e servizi di sicurezza).

All’epoca non è ancora chiaro se i russi stiano lavorando per mantenere Lukashenko al potere o per organizzare un trasferimento di potere sotto il controllo del Cremlino.

Certo è che Lukashenko non gode più di alcuna autonomia ed è diventato a tutti gli effetti uno strumento nelle mani della Russia.

Lo scorso aprile si apprende che la Bielorussia sta dispiegando forze e hardware militare alla sua frontiera ucraina in un modo che sembra essere coordinato con le azioni di Mosca.

La crisi dei migranti alla frontiera tra Bielorussia, Polonia e Lituania, che ha conquistato le prime pagine dei media internazionali il mese scorso, è una ulteriore dimostrazione di come il regime di Minsk venga ora utilizzato dal Cremlino per le sue azioni di guerra ibrida contro l’Occidente.

Come fa notare il sito EU vs Disinformation in un articolo del 13 novembre la copertura mediatica della crisi migratoria da parte della tv di stato bielorussa, che accusa UE e Polonia di essere i veri responsabili di questa vicenda, è di fatto coordinata da tecnologici politici russi.

In un’intervista a RIA Novosti del 1° dicembre Lukashenko oltre a dichiararsi pronto a sostenere la Russia in caso di aggressione ucraina, afferma che la Crimea, dopo il referendum, è de facto e de jure Russia.

Scenari futuri

Occorrerebbe davvero avere la sfera di cristallo per prevedere il futuro di un conflitto che si protrae da quasi otto anni, che ha già causato 14.000 vittime in Ucraina e che affonda le sue radici in una politica imperiale russa che storicamente l’Occidente non ha mai voluto e/o saputo contrastare.

Le variabili in campo sono tante e il fattore Bielorussia introduce un ulteriore elemento di erraticità in uno scenario di guerra ibrida complicato e imprevedibile.

Le indicazioni emerse dopo il vertice Putin-Biden del 7 dicembre dicono di un’America che non sottovaluta affatto l’ostentazione di muscoli del Cremlino interpretandola solo come profusione di una retorica sempre più bellicosa da parte di un regime dittatoriale e cleptocratico in evidente difficoltà.

Il consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti Jake Sullivan ha confermato che Biden ha ribadito a Putin che l’America sta preparando una serie di nuove misure sanzionatorie “ad un profondo livello di specificità” insieme ai suoi partner europei.

A parer di chi scrive l’unica efficace misura sanzionatoria da parte del mondo occidentale nei confronti di Mosca, l’unico autentico deterrente per fermare l’invasione russa in Ucraina, sarebbe l’esclusione della Russia dal circuito SWIFT (Società per le telecomunicazioni finanziarie interbancarie mondiali).

Secondo la CNN gli Stati Uniti stanno ponderando, nell’eventualità di un’escalation russa in Ucraina, anche l’esclusione di Mosca dal sistema SWIFT.

Resta da vedere se il Cremlino reputi questa minaccia credibile. La storia insegna che per trattare efficacemente con l’Orso russo occorre essere assertivi e determinati.

Questa è anche una partita a scacchi e i russi sono maestri in questo gioco. Kyiv è perfettamente consapevole di ciò. Kyiv sa che nel worst case scenario l’Ucraina dovrà difendersi da sola e potrà contare solo su un’assistenza indiretta della NATO, non essendo membro dell’Alleanza Atlantica.

Ma grazie alle riforme nel settore militare realizzate dalla Presidenza Poroshenko, gli addestramenti congiunti con militari NATO di questi anni e il materiale logistico e di difesa fornito da Canada e Turchia, paesi amici dell’Ucraina ben più di Francia, Germania e Italia, una piccola guerra vittoriosa della Russia in Ucraina non è possibile.

Come sottolineato dal Ministro della Difesa ucraino, Oleksiy Reznikov, il costo umano di una guerra su larga scala sarebbe catastrofico per l’Ucraina, ma gli ucraini non piangerebbero da soli.

La Russia subirebbe enormi perdite, le immagini delle bare che tornano in Russia dal fronte in Ucraina si diffonderebbero come un virus sui social media e questo sarebbe impossibile da occultare anche per i censori del Cremlino.

Una grande guerra in Ucraina metterebbe in crisi l’intera Europa.

 

 

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CAT: Geopolitica, Russia

Un commento

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  1. giovanni-gualtiero 2 anni fa

    tenendo conto che Kiev fu capitale della Russia bisogna proprio parlare di guerre tra se stessi. i colpi di stato, di cui il pentagono è maestro no smettono mai di generare violenza.

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