Sono molteplici gli esiti possibili per la guerra russo-ucraina (provocata, è sempre bene sottolinearlo, da Mosca). Tuttavia nell’ampio ventaglio delle possibilità (inclusa quella di una guerra a intensità variabile in grado di trascinarsi e autoalimentarsi ancora per anni, pur con le ovvie evoluzioni e mutazioni – è già accaduto in passato: pensiamo alla Guerra dei Cent’anni, o alla Guerra degli Ottant’anni tra le Province Unite e la Spagna imperiale) l’esito più probabile all’orizzonte è quello cosiddetto coreano.
Ne parlava già lo storico specializzato in URSS e stalinismo Stephen Kotkin lo scorso febbraio, ipotizzando un’Ucraina “stile coreano”, membro dell’Unione Europea e al di qua di una zona demilitarizzata che la separi dalla Russia. In realtà l’esito coreano, a mio parere – ne parlavo già a marzo con un reporter svizzero, e a maggio con la giornalista Alba Arcuri nel programma di Rai Radio 1 “Voci dal mondo” –, per quanto probabile, necessita di vari presupposti per materializzarsi.
Il primo, la condicio sine qua non, è che gli Stati Uniti siano determinati a garantire la sicurezza dell’Ucraina, e a intervenire in sua difesa in caso di ulteriori aggressioni. Infatti la Corea del Sud che oggi conosciamo (democratica, con una florida economia, culturalmente vivacissima, alla frontiera dell’innovazione nella robotica, nella microelettronica e nelle ICT) esiste anche perché dopo l’Armistizio del luglio del 1953 (firmato dalle Nazioni Unite, dalla Cina e dalla Corea del Nord, ma non da Seul) gli Stati Uniti firmarono con la Corea del Sud, nell’ottobre di quello stesso anno, il Trattato di mutua difesa, in forza del quale stazionano oggi, nel paese asiatico, oltre 28mila uomini [dati 2021] delle forze armate statunitensi. Senza il Trattato di mutua difesa è molto probabile che sarebbe scoppiata un’altra guerra nella penisola coreana. Senza un analogo Trattato di mutua difesa tra Ucraina e Stati Uniti sarebbe suicida, per Kyiv, firmare un armistizio con Mosca.
Se l’Ucraina ha fermato con successo l’invasione russa, ed è passata alla controffensiva, è anche merito dell’ampio sostegno fornito dall’amministrazione Biden. Un sostegno triplice: militare, finanziario, umanitario (senza dimenticare il preziosissimo contributo in termini di intelligence e di diplomazia).
Naturalmente non voglio in alcun modo sminuire l’eroismo e la determinazione delle donne e degli uomini ucraini, né l’abilità dei leader politici e militari a Kyiv (e lascio le considerazioni sulla conduzione della guerra a polemologi ed esperti di strategia); ma è utile ricordare che gli Stati Uniti sono il paese che ha fornito più aiuti militari, finanziari e umanitari a Kyiv: oltre settantasei miliardi di dollari, di cui quasi cinquanta in supporto militare [dati febbraio 2023]; un contributo imponente, che fa impallidire l’aiuto fornito da Washington a Israele, a Taiwan o ai paesi dell’America meridionale nei momenti più aspri della Guerra Fredda.
Certo, le repubbliche baltiche e vari paesi dell’Europa settentrionale e centrale (penso a Norvegia, Polonia, Paesi Bassi, Cechia, Regno Unito) hanno dato, in proporzione al PIL, di più, e il contributo finanziario della UE è stato poderoso (superiore a quello statunitense). Ma è ragionevole ritenere che senza il sostegno di Washington a Kyiv la guerra russo-ucraina sarebbe andata in modo molto diverso.
Solo in caso di garanzie certe da parte di Washington (e al verificarsi di almeno un’altra delle condizioni che indicherò a breve) l’Ucraina potrebbe accettare di firmare un armistizio con la Russia. L’armistizio non significherebbe accettare la definitiva perdita dei territori ucraini controllati da Mosca, ma solo accettare uno status quo che potrebbe durare decenni o anni, a seconda delle evoluzioni della situazione economica e politica russa.
Gli ucraini sanno bene che una loro entrata nella NATO è al momento assai improbabile (le difficoltà incontrate dalla Svezia, bloccata non solo dalla Turchia ma anche dall’Ungheria filo-russa, sono note, ne ho scritto su questo quotidiano e su Valigia Blu varie volte), e garanzie da parte di medie potenze come il Regno Unito, la Polonia, la Germania, la Francia o l’Italia varrebbero poco, senza gli Stati Uniti.
Mi si obietterà che gli ucraini non sono disponibili a una pace coreana. E in effetti sic stantibus rebus è così. A inizio giugno, durante lo Shangri-La Dialogue a Singapore, un paese storicamente non-allineato, l’Indonesia, ha avanzato una proposta del genere, ma Kyiv non ha per nulla gradito: il ministro della difesa ucraino ha parlato di un piano “strano”, russo più che indonesiano. A mio parere si potrebbe arrivare – semplificando un po’ – a un esito coreano della guerra solo al verificarsi di almeno una di queste condizioni:
1. la controffensiva ucraina è un successo solo parziale, o addirittura un mezzo insuccesso;
2. l’amministrazione Biden decide di ridurre il sostegno a Kyiv, per motivi economici e/o politici e/o di sicurezza nazionale;
3. il concreto rischio di una vittoria di Donald Trump (o di un altro repubblicano di estrema destra) alle presidenziali del 2024.
La condizione 2 è chiara: senza il sostegno degli Stati Uniti le cose si complicherebbero molto per Kyiv. Partiamo dall’economia: spesso è stata la borsa vuota a spingere le grandi potenze verso gli accordi diplomatici (è il caso, ad esempio, della pace di Cateau-Cambrésis del 1559: non soltanto la Francia, ma anche la Spagna era in gravi difficoltà finanziarie, tant’è vero che nel 1557 il prudente Filippo II aveva dichiarato la sua prima bancarotta). Il sostegno all’Ucraina ha un costo rilevante, e a marzo i repubblicani al Congresso hanno attaccato Biden a riguardo.
E con le presidenziali vicine Joe Biden ha bisogno di una qualche vittoria: la fine della guerra (l’armistizio) tra Kyiv e Mosca, e l’inizio della ricostruzione (con commesse per le imprese statunitensi, e in misura minore per quelle britanniche, polacche, baltiche, olandesi, nordiche ecc.) potrebbero contribuire alla sua rielezione, specie se la ricostruzione iniziasse a generare subito posti di lavoro e business in alcuni stati del Midwest e del South Atlantic.
Anche la condizione 3 è, credo, auto-esplicativa. Se si profilasse all’orizzonte una vittoria repubblicana alle presidenziali del 2024 sia l’amministrazione Biden che il governo ucraino avrebbero ottime ragioni per cercare un armistizio. Trump è filo-russo, e isolazionista. Per lui la vera minaccia è la Cina, e alienarsi la Russia sostenendo l’Ucraina significa spingere Mosca tra le braccia di Pechino (non è del tutto falso, ma non è neanche del tutto vero). Ma pure Ron DeSantis, un tempo falco anti-russo, di recente si è mostrato molto più cauto, criticando un eccessivo coinvolgimento degli Stati Uniti in quella che ha definito “una disputa territoriale” tra la Russia e l’Ucraina (incidentalmente osservo che concetti analoghi vengono usati da certi autori nostrani schierati “per la pace” – meno dai pacifisti veri, quelli che da anni si battono senza ambiguità per il disarmo globale). E anche se Strasburgo è lontana da Washington, nel 2024 si terranno le elezioni europee: che potrebbero sancire la fine della grande coalizione tra socialisti, liberali e popolari, e il successo dell’estrema destra europea (che in Germania, ad esempio, mostra assai poca simpatia verso l’Ucraina).
Infine, la condizione 1: nel caso la controffensiva ucraina non avesse pieno successo (o se si rivelasse, il Cielo non voglia, addirittura un mezzo fiasco) Kyiv sarebbe costretta a prendere in seria considerazione l’opportunità di un armistizio con la Russia. Che, come notava Kotkin, lascerebbe l’80-90% del territorio ucraino in mano al legittimo governo ucraino, e una piccola parte (inclusa la Crimea, dal grande valore strategico e simbolico) ai russi.
Ribadisco: un confine definito da una zona demilitarizzata in forza di un armistizio può mutare; dipende tutto dalla situazione interna russa. Se per esempio il regime di Putin si sgretolasse dopo la morte del dittatore a causa delle proteste della piazza, un nuovo governo russo in cerca del sostegno occidentale dovrebbe quasi di sicuro cercare un duraturo accordo di pace con Kyiv, e restituire la Crimea (che, voglio ricordarlo, era una repubblica autonoma con una sua costituzione, prima dell’invasione russa del 2014).
Un esito coreano della guerra dipende dunque pure dall’attuale amministrazione Biden, oltre che da un guizzo di intelligenza del regime russo [ne parleremo prossimamente] e da un rinnovato pragmatismo di Kyiv. Non perché siano stati gli statunitensi a provocare la guerra (è stato il regime russo a invadere l’Ucraina nel 2014, quando era ancora uno Stato neutrale, e poi ad aggredirla brutalmente nel 2022), ma perché senza gli Stati Uniti alle spalle Kyiv perderebbe un sostegno cruciale (e inoltre altri paesi europei storicamente vicini alla Russia post-sovietica come la Germania si tirerebbero presto indietro).
Senza Washington per Kyiv diventerebbe molto più difficile continuare la guerra – il che non equivale certo a dire che non potrebbe comunque continuarla: l’Ucraina non è un fantoccio dell’Occidente, perché in trincea non ci sono soldati statunitensi, polacchi o inglesi, ma il popolo ucraino, che lotta con le unghie e con i denti contro una potenza imperialista e quasi-fascista (e noto, en passant, che trovo bizzarro come intellettuali italiani che negli anni ’70 manifestavano a favore del popolo vietnamita aggredito dagli Stati Uniti fatichino a capire la psicologia degli ucraini, confondendo una minoranza di estremisti di destra, neofascisti e ultranazionalisti con un intero popolo, e dimenticando che in ogni esercito ci sono estremisti di destra, neofascisti e ultranazionalisti).
E se la controffensiva ucraina andasse sin troppo bene? Pure in questo caso la condizione 2 e/o la condizione 3 sarebbero decisive per arrivare a un armistizio. Solo che sarebbe molto più difficile per Washington spingere Kyiv ad accettare una soluzione coreana. Il punto è che una controffensiva ucraina di grande successo è – per un amaro paradosso – foriera di pericoli reali. Infatti la Crimea, così come tutti gli altri territori ucraini occupati illegalmente da Mosca sono (per il diritto russo, di certo non per quello internazionale) parte integrante dello Stato russo, a seguito dei farseschi referendum del 2022. Se Kyiv fosse in grado di liberare in toto le aree illegalmente annesse dalla Russia, e al contempo si moltiplicassero le sensazionali azioni dei gruppi armati anti-Putin, Mosca potrebbe sì ricorrere all’atomica nei confronti di Kyiv, ad esempio usando armi nucleari tattiche contro centri urbani ucraini di rilievo.
Infatti la dottrina russa prevede l’uso di armi nucleari in caso di aggressioni (con armi convenzionali) contro la Russia, se la stessa esistenza dello Stato russo è messa a rischio. Il combinato disposto di una controffensiva ucraina travolgente, e di colpi di mano sempre più audaci e spettacolari da parte degli anti-putiniani (dannunziani del XXI secolo, se mi si concede il temerario parallelismo) potrebbero spingere il regime putiniano a minacciare (o persino attuare) le misure più estreme. E qualora Mosca lanciasse un’arma nucleare tattica contro una grande città ucraina, cosa farebbe (meglio: cosa potrebbe fare) l’amministrazione Biden? Sarebbe disposta a intervenire militarmente contro la Russia, rischiando un conflitto nucleare globale?
Ecco perché chi invoca lo sgretolamento (nel breve termine molto improbabile) della Russia scherza con il fuoco. Non soltanto perché fornisce argomenti agli imperialisti e agli ultranazionalisti russi, e perché una Russia a pezzi potenzierebbe enormemente la Cina (che già oggi sta estendendo la sua influenza e protezione su repubbliche dell’Asia centrale come Turkmenistan e Kazakhstan, ed è sempre più presente nel cosiddetto estremo oriente russo), trasformandola in una superpotenza euroasiatica come mai se ne è viste dal XIII secolo, ma perché il rischio di uno sgretolamento della Russia, una balcanizzazione di questo enorme e complesso Stato autoritario, potrebbe giustificare l’uso dell’arma nucleare (al pari di tentativi seri di regime change, al momento improbabili). Inoltre rilevo che in caso di collasso del regime putiniano il destino dell’arsenale nucleare russo sarebbe fonte di enorme ansie per le cancellerie di tutto il mondo, prefigurando scenari da film di fantapolitica (ad esempio che cosa accadrebbe se terroristi islamisti, o neofascisti, si impadronissero di alcuni ordigni?)
Il regime putiniano può accettare una mezza sconfitta travestita da vittoria (grazie a una propaganda capillare, e all’eliminazione di quasi ogni voce critica dal discorso pubblico), ma non può permettersi una sconfitta piena e cocente. E se l’aggressiva retorica nucleare di certi politici e commentatori russi è buona soltanto per spaventare porzioni dell’opinione pubblica occidentale (in particolare i più anziani, comprensibilmente traumatizzati dagli incubi della Guerra fredda) e fornire argomenti a certi autori nostrani schierati “per la pace”, è anche vero che la Russia ha un temibile arsenale nucleare, e che potrebbe usarlo in extremis.
Nel caso di una controffensiva ucraina prossima al più roboante e grandioso dei successi Washington dovrebbe tenere a freno Kyiv, e impedirle di umiliare troppo la Russia. La mia è una constatazione amarissima: gli ucraini meritano il trionfo; dopo anni di enormi sofferenze, dopo così tanto sangue e così tante lacrime, dopo stragi e devastazioni immani che noi europei dell’ovest, viziati da oltre settant’anni di pace e prosperità, non possiamo immaginare, sarebbe meraviglioso se il regime russo crollasse sotto il peso dei suoi mostruosi crimini e della sua corruzione, se Putin e i suoi accoliti venissero processati, se l’Ucraina recuperasse ogni metro quadrato del suo territorio e fosse accolta subito nella NATO (perché l’Ucraina appartiene all’Occidente, e lo ha dimostrato in questi due anni oltre ogni dubbio). Ma è assai improbabile che tutto questo possa accadere, nonché che possa accadere senza una guerra nucleare, e/o un big bang geopolitico difficile anche solo da immaginare.
In Occidente non tutti la pensano così, sia chiaro: non pochi polacchi e baltici, per esempio, sognano il crollo della Russia; ma una Russia a pezzi (scenario comprensibilmente allettante per chi vive nell’Europa centro-orientale, e per secoli ha dovuto subire il gioco russo prima, sovietico poi, infine l’aggressività neoimperialista del regime putiniano) è un esito tanto improbabile quanto pericoloso, come ho cercato di spiegare sopra.
Cosa potrebbe fare Washington per spingere una Kyiv vittoriosa a fermarsi, a ordinare alle sue truppe trionfanti di non andare oltre, o addirittura di arretrare? La risposta, credo, è militare, politica ed economica al contempo: offrire le garanzie di sicurezza che ho citato prima, promettere a Kyiv un accesso molto rapido all’Unione Europea (ciò non dipende dalla Casa Bianca, ma credo che l’Europa potrebbe seguire Washington, a determinate condizioni – lo sta già facendo, del resto), minacciare di ridurre gli aiuti e soprattutto lanciare un enorme piano di ricostruzione dell’Ucraina, paragonabile al Piano Marshall (rectius: l’ERP) che gli Stati Uniti vararono dopo la Seconda Guerra Mondiale a beneficio di Regno Unito, Francia, Italia ecc.
L’offerta dovrebbe essere così vergognosamente generosa da placare la contrarietà dei molti che, a Kyiv, non vorranno – comprensibilmente – deporre le armi se non dopo la completa liberazione dell’Ucraina, e così ampia da spingere persino i polacchi, i nordeuropei e i baltici, cioè il nerbo del sostegno morale all’Ucraina, ad appoggiare una soluzione coreana “potenziata”, nell’interesse anche delle loro imprese. Per blandire gli Stati dell’Europa centro-orientale e baltica (che spesso i commentatori italiani neanche considerano) si potrebbe pensare poi a un parellelo piano per la ricostruzione e rinascita della Moldavia e, forse, della Bielorussia, dell’Armenia e della Georgia, che aprirebbe nuovi mercati e stabilizzerebbe quei paesi così periferici.
Ovviamente Kyiv riceverà in ogni caso cospicui aiuti, sia che la controffensiva abbia un esito non del tutto soddisfacente o addirittura insoddisfacente, sia che si riveli un grande trionfo; ma più grandi saranno le vittorie ucraine sui campi di battaglia, più i diplomatici ucraini potranno chiedere in termini politici, finanziari e diplomatici a Washington e al resto dell’Occidente. Purché Kyiv non ecceda. Anche se è un paragone che non mi piace, è come nel blackjack: più carte Kyiv chiede, più è probabile che superi il 21. E se si supera il 21 a vincere non sarà né la Russia, né l’Ucraina, né gli Stati Uniti (men che meno l’Europa). Solo la Cina.
Voglio ribadirlo: al momento è molto improbabile che si arrivi a una guerra nucleare, a uno sgretolamento della Russia, al crollo del regime putiniano. I due esiti più probabili sono quello coreano, e quello coreano potenziato (esiti di certo non indolori, sia chiaro, ad esempio perché una zona demilitarizzata sarebbe comunque una faglia destabilizzante nel cuore dell’Europa orientale ). Tuttavia il tempo passa, e la congiuntura favorevole per Kyiv potrebbe presto esaurirsi.
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Mi convince al 90%. Non capisco chi pagherà.