Attentato di New York: i pericolosi amici degli USA

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1 Novembre 2017

In attesa delle analisi dei nostalgici di Lepanto, i quali ci ammoniranno che è in corso una guerra tra un miliardo di cristiani e un miliardo di musulmani e che dobbiamo gettarci armati nella mischia, si può provare a fare qualche considerazione sull’attentato di New York, per cominciare a districarci tra le complicate questioni che la vicenda evoca, senza pretese di esaustività.

Il terrorista è un uzbeko e l’Uzbekistan non è nella lista dei paesi oggetto del “travel ban” di Trump, nonostante da quel paese provengano molti dei terroristi che hanno colpito diversi obiettivi negli ultimi anni. Non c’è molto da aggiungere sulla lista del presidente: questa vicenda conferma che i criteri con cui è stata elaborata sono del tutto arbitrari e seguono logiche che non hanno nulla a che vedere con la sicurezza, né con il terrorismo, e nemmeno con la geopolitica. Serve soltanto a dare la sensazione all’elettorato trumpiano, fomentato da anni di propaganda di Foxnews e dei siti nazionalisti sui pericoli provenienti dai molteplici nemici dell’America, che qualcuno li sta difendendo, non importa come, l’importante è che sia fatto in modo plateale e in diretta Twitter. Nella lista ci sono l’Iran, il Venezuela, il Ciad, che non hanno prodotto minacce terroristiche agli Usa, e mancano altri paesi da cui arrivano effettivamente molti terroristi, come il Pakistan, l’Arabia Saudita e appunto l’Uzbekistan.

Le ragioni sono evidenti: i paesi alleati, con cui gli Usa hanno rapporti militari ed economici strettissimi, non sono considerati pericolosi. E in questo Trump, con tutta la sua retorica razzista e le misure illegali che propone, non si differenzia molto dai suoi predecessori, perché le relazioni con i paesi che producono il terrorismo risalgono a decenni fa.

È noto il legame tra gli Usa di Reagan e il Pakistan di Zia, artefice dell’islamizzazione del paese e beneficiario del sostegno dei movimenti fondamentalisti contro gli eredi del destituito regime laico di Bhutto. È noto anche come questo rapporto si declinò negli anni della guerra in Afghanistan, quando Reagan riempì la regione di armi indirizzate alla resistenza contro l’Urss e incaricò l’Arabia Saudita di arruolare volontari da tutto il mondo islamico, con base in Pakistan. I militanti, istruiti e formati al wahhabismo e armati dagli Usa, avrebbero poi insanguinato il Medio Oriente, una volta tornati a casa, fino a colpire i loro stessi artefici. In questo si rimanda alle numerose e precise ricostruzioni (in particolare ai lavori di Gilles Kepel).

Negli anni Novanta e Duemila, gli Usa hanno consolidato anche il loro rapporto con alcuni paesi dell’Asia centrale, e quindi anche con l’Uzbekistan, considerato determinante per la stabilità regionale e luogo di passaggio di importanti oleodotti, esistenti o in costruzione. Una stabilità fondata sulla repressione di un regime, quello di Islam Karimov (1991-2016), che ha guidato il paese per 25 anni con metodi brutali, approfittando dell’ossessione statunitense per l’islamismo: in particolare dopo il 2001, tutti gli oppositori del regime – che ha fornito una base militare agli Usa nella guerra in Afghanistan e che ha appoggiato la guerra in Iraq – sono stati etichettati come islamisti. Di islamismo sono state accusate anche le centinaia di uzbeki (quasi 1.500 secondo le ong) massacrati a Andijan nel 2005, durante una manifestazione contro le politiche economiche e la repressione del regime. La vicenda suscitò la riprovazione perfino dell’amministrazione Bush, anche se poi gli Usa non insisterono perché Karimov si assumesse le responsabilità della strage, mentre l’embargo sulle armi deciso dai paesi europei come pressione perché si facesse chiarezza sulla strage durò solo pochi anni.

Nonostante la repressione, il capillare controllo dello stato sulle moschee e la presenza di forze speciali addestrate per la lotta al terrorismo, il radicalismo islamico si è gravemente esteso nel paese e nella regione e il regime uzbeko ha sempre confuso i due piani, inserendo i movimenti democratici nella categoria dell’islamismo, finendo per spingere molti giovani tra le braccia di imam radicali, con la loro predicazione estremista considerati più efficaci contro il regime di quanto lo sia chi invoca il rispetto dei diritti umani e la democrazia. I trumpiani di tutto il mondo sosterranno che basterà vendere all’Uzbekistan qualche arma in più per combattere il terrorismo, come si è fatto finora con il Pakistan e con tutti gli altri paesi amici alle prese con questo problema. Forse però, anche in questo caso, la soluzione non è così facile – e il Pakistan è l’esempio più clamoroso del fallimento della strategia muscolare – e bisognerebbe elaborare un piano di più ampio respiro, che riduca gli spazi di arruolamento dei terroristi, piuttosto che inseguirli in giro per il mondo quando sono già diventati tali.

TAG: Asia Centrale, Attentato di New York, radicalismo, terrorismo
CAT: Geopolitica, Terrorismo

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