Chiesta l’assoluzione del pentito che ha fornito l’arma di 9 delitti

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5 Maggio 2018

Mentre negli Stati Uniti si riunisce la potente lobby delle armi NRA e plaude all’idea di un produttore di lanciare sul mercato una rivoltella pieghevole in tutto e per tutto uguale ad un cellulare, un gingillo che però non servirebbe per telefonare ma per uccidere, a Monaco di Baviera è proseguito questa settimana il processo per i crimini del gruppo terroristico Clandestinità nazionalsocialista (NSU). È toccato alla difesa del pentito Carsten Schultze presentare le proprie conclusioni e cercare di minimizzare le conseguenze giuridiche legate all’avere consegnato l’arma con cui sono state freddate nove persone.

 

Gli avvocati Jacob Hösl e Johannes Pausch il 2 maggio hanno chiesto la assoluzione piena per il loro assistito. La Procura della Repubblica aveva perorato una condanna a 3 anni, uno oltre la soglia per la sospensione condizionale della pena. “L’imputato” aveva indicato infatti il Procuratore Generale Herbert Diemer “non ha ancora capito quale sia veramente la colpa che porta” ed a fronte di reati con finalità terroristiche “il carcere quale prevenzione è irrinunciabile”; senza il suo apporto aveva tuttavia ammesso “il processo non si sarebbe potuto svolgere”.

 

Carsten Schultze è accusato di avere agito sotto le direttive del co-imputato Ralf Wohlleben, ex consigliere del partito neonazista NPD, e tenuto contatti telefonici con i fuggiaschi Uwe Böhnhardt, Uwe Mundlos e Beate Zschäpe, avere sottratto dall’appartamento di quest’ultima dei documenti e soprattutto di concorso in omicidio plurimo per aver fornito loro l’arma con silenziatore usata per nove delitti. Pur avendo all’epoca dei fatti vent’anni, in esito alle risultanze della perizia psichiatrica forense del Prof. Norbert Leygraf può essere giudicato secondo il diritto minorile. Era ancora parzialmente immaturo quando ha aderito all’estrema destra in esito ad un sentimento di ribellione ai genitori (una madre inaffidabile, un padre severo e privo di empatia) e soffriva per una omosessualità di cui non aveva ancora preso coscienza. Solo a metà degli anni 2000, lasciando Jena per Düsseldorf, dove ha completato gli studi e lavorato come assistente pedagogico, ha superato le sue inibizioni. Da cinque anni è nel programma di difesa per i testimoni.

 

L’avvocato Johannes Pausch ha sottolineato che Carsten Schultze si è pienamente distanziato dall’estrema destra; si è consegnato prima di essere arrestato e fin dall’inizio ha reso piena confessione collaborando alle indagini, anche contro il parere iniziale del collega Hösl, senza avere alcuna conoscenza degli atti e sforzandosi di raccogliere tutti i ricordi. Se non ci è sempre riuscito, non è stato per calcolo strategico come gli ha ascritto l’accusa, ma solo perché <la memoria è come un cane selvatico che non obbedisce> e tutti siamo dotati di meccanismi di tutela che non sempre ci lasciano ricordare dopo così tanti anni. A riprova della sua piena volontà di collaborazione ha anche indicato agli investigatori che Mundlos e Böhnhardt gli riferirono che a Norimberga avevano già provato a fare un attentato con una torcia. Per la Procura Carsten Schultze lo avrebbe fatto però per infierire di non avere saputo prima che il trio avesse già maneggiato della TNT; mentre invece doveva già conoscere dalle cronache che la perquisizione nel garage affittato da Beate Zschäpe aveva messo in luce un’officina per costruire delle bombe e Zschäpe, Mundlos, e Böhnhardt erano pericolosi. (Già nel 1993 d’altronde c’era stato l’incendio di matrice neonazista contro una famiglia turca a Solingen; ancorché allora Schultze avesse 13 anni, doveva essergli noto che l’odio per gli stranieri poteva giungere a cercare di ucciderli).

 

Nel ripercorrere le evidenze probatorie i difensori hanno evidenziato che Carsten Schultze nell’ottobre 1997 aveva all’estrema aderito destra ma non per vero convincimento, bensì solo perché aveva fatto amicizia con un coetaneo; nel suo quartiere di Jena Winzerla d’altronde i ragazzi erano quasi tutti skinheads. Conobbe così Christian Kapke, il fratello minore di André Kapke uno dei leader dell’estrema destra in Turingia, e fece amicizia anche con questi. Non allignava però in lui un vero afflato politico; in primo piano c’erano il fattore divertimento ed il senso di appartenenza e di sicurezza, tratto dall’abbigliamento con un giaccone bomber e stivali con la punta d’acciaio, nella gratificazione dal gruppo. Aveva poi incontrato i tre fuggiaschi prima della loro discesa in clandestinità solo due o tre volte, nulla più che un saluto, e conobbe lo stesso Ralf Wohlleben, di 5 anni più grande di lui, solo nel 1998. Si vide però catapultato nel luglio 2000, su spinta di Tino Brandt e Sandro Taube (della compagine neonazista Thuringer Heimatschutz) a sostituto regionale nel gruppo giovanile del partito NPD quando aveva 18 anni, senza che vi aspirasse o fosse un fanatico. Il ruolo d’altronde non richiedeva neppure di indottrinare politicamente i ragazzini affidatigli, per lo più dei 14enni, ma fidelizzarli con attività ludiche ed avventurose, come escursioni notturne e soprattutto la musica. E Schultze mantenne l’incarico solo per tre mesi, senza aver mai fatto discorsi dal podio, o rilasciato interviste, aizzando odio contro gli stranieri. Voleva solo appartenere al gruppo per superare le sue insicurezze, vuoi per le sue origini indiane, vuoi per la sua non elaborata omosessualità, e si era delineato come oltre modo affidabile; ha riassunto la sua difesa. Per questo fu usato da Wohlleben che temeva di essere sotto osservazione per tenere i contatti con i fuggiaschi e per andare a prendere dei documenti di nascosto nell’appartamento sigillato di Beate Zschäpe. Wohlleben però fece credere a Schultze che solo lui ormai fosse il trait d’union con i clandestini, in realtà SMS rivelano che egli stesso li incontrò più volte.

 

L’avvocato Hösl ha dovuto ammettere però che Carsten Schultze non ebbe remore nell’aderire all’estrema destra. Pur adesso provandone vergogna, ha infatti testimoniato che se la pigliavano contro i negozi di Döner, distruggendoli e prendendone a calci i proprietari per mero divertimento; ha rivelato di aver partecipato ad un’aggressione nei pressi di una fermata del tram e l’avvocato ha dovuto anche scusarsi a nome del suo cliente perché riferì erroneamente che il co-imputato Ralf Wohlleben fosse montato sulla testa della vittima. Schultze lo avrebbe tuttavia dichiarato solo perché così gli disse lo stesso Wohlleben; ma avendo comunque ricostruito nei dettagli l’aggressione cui lui stesso aveva preso parte e mai prima emersa. Un episodio che nonostante i reiterati dinieghi di Ralf Wohlleben, ha trovato piena conferma anche grazie alle ricerche dell’avvocato di parte civile Hardy Langer. Con tutto questo però per il difensore, Carsten Schultze non ha mai manifestato odio per gli stranieri sino a volerli uccidere: nessun testimone di destra, che pure in lui vedeva un traditore, ha lasciato intendere possa essergli ascritto. Insomma, era capace di picchiare gli stranieri, ma senza volontà di ucciderli.

 

Un punto centrale della linea della difesa dell’imputato è stato di sottolineare che Carsten Schultze deve essere creduto anche quando ha affermato che non ordinò affatto il silenziatore della Czeska 83 usata per i novi omicidi. Carsten Schultze era stato arrestato il 1° febbraio 2012 e disse subito che assieme all’arma c’era, mentre Andreas Schulz, il venditore, interrogato il 25 gennaio 2012, non l’aveva menzionato. Schulz confrontato di nuovo con la vendita del silenziatore dapprima negò che ci fosse, per cambiare quindi versione ed affermare che non avrebbe consegnato nulla che non gli fosse stato richiesto. Ma per l’avvocato di Schultze, Jacob Hösl, è perché aveva tutto l’interesse a sminuire il proprio ruolo, stante che la Procura ritiene abbia procurato anche altre due armi ai fuggiaschi per conto del co-imputato Ralf Wohlleben. Una già prima consegnata da Jürgen Helbig, un militante di estrema destra amico di Wohlleben; un’altra nel 2001 tramite l’altro co-imputato Holger Gerlach. Infatti, in aula Andreas Schulz si è trincerato dietro il diritto di non rispondere. È evidente poi, ha indicato il difensore, che Andreas Schulz aveva avuto contatto con Ralf Wohlleben prima di dare l’arma al suo cliente, per lui era uno sconosciuto e non gli avrebbe altrimenti consegnato nulla. I passaggi di mano della rivoltella però erano in effetti già iniziati in Svizzera molto prima che Carsten Schultze la comprasse (e sarebbe interessante sapere a chi altri fosse essa eventualmente destinata); quando quindi Andreas Schulz gli fornì una pistola che non era di fabbricazione tedesca, come per contro Mundlos e Böhnhardt avevano chiesto, e per di più una pistola in un set che aveva un silenziatore, non fu perché lo avesse ordinato, ma plausibilmente perché era l’unica arma che Schulz aveva potuto trovare. Andreas Schulz in effetti aveva un negozio di abbigliamento e vendeva musica neonazista vietata sottobanco, ma non era un armaiolo anche se “sapeva muoversi”. Carsten Schultze d’altronde, ha indicato l’avvocato Hösl, non aveva idea che Andreas Schultz aveva probabilmente già procurato ai tre fuggiaschi un’arma prima. Neppure era al corrente che il numero privato di Schulz fosse in un elenco rinvenuto il 29 gennaio 1998 nel garage affittato da Beate Zschäpe. Anche la circostanza che il primo ed il terzo omicidio furono perpetrati con due armi, di cui una senza silenziatore, indicherebbe che quest’ultimo non fosse stato richiesto, ha sostenuto il difensore.

 

Per l’accusa Andreas Schulz in punto consegna del silenziatore è tuttavia più convincente: Carsten Schultze non poteva non essersi reso conto di ciò che faceva consegnando un’arma dotata di silenziatore ai tre discesi in clandestinità, quando lo ha fatto si è assunto il rischio che uccidessero, anche se non ha saputo farsene carico nella sua confessione. Per la difesa invece non era neppure in grado di figurarselo e non può avere alcuna responsabilità neppure sotto l’aspetto del dolo eventuale. Per sostenerlo l’avvocato Hösl ha sottolineato che Carsten Schultze non era in stretto in contatto con il sestetto più coeso del Nationaler Widerstand che a partire degli anni ‘90 aveva coniato la Kameradschaft Jena: il pregiudicato André Kapke, gli imputati Holger Gerlach, Ralf Wohlleben e Beate Zschäpe ed i defunti Uwe Böhnhardt ed Uwe Mundlos, dal quale scaturì lo NSU. Non aveva mai preso parte alle loro discussioni, iniziate nel 1994, sull’uso della violenza per raggiungere fini politici. Idea su cui i sei erano peraltro divisi e che, ha infierito il difensore, non ancora necessariamente implicava ricorrere alle armi. Neppure partecipò alle loro precedenti gesta: appendere un manichino con una stella gialla ed una finta bomba per simboleggiare che si dovevano uccidere tutti gli ebrei (aprile 1996), invio di lettere minatorie con polvere nera alla polizia, alla redazione di un giornale locale e all’amministrazione cittadina (dicembre 1996); deposito di finte bombe nello stadio (ottobre 1996) e nella piazza del teatro (settembre 1997) a Jena. Non c’erano neanche mai stati omicidi di stranieri indica il legale. Per il difensore, a Carsten Schultze non poteva essere chiaro quanto i fuggiaschi fossero pericolosi neppure quando all’atto di consegnar loro la Czeska 83 questi ultimi gli fecero intendere con un gesto, ma nessuna parola, precisa che nello zaino avessero già una pistola automatica. Mentre invece per la Procura questo implica una volta di più che l’imputato dovesse essere consapevole che l’arma non sarebbe servita solo per rapine. L’avvocato Hösl però ha osservato che l’imputato aveva solo una conoscenza superficiale di Mundlos e Böhnahrdt e non poteva conoscerne le intenzioni; per lui in primo piano c’era l’eccitazione avventurosa della missione segreta e riflessioni si sono profilate solo dopo. Schultze per l’avvocato Hösl, ha avuto senz’altro coscienza dell’atmosfera cospirativa e percepì come sgradevole il gesto fatto da Wohlleben (che secondo Schultze quando dopo averla ritirata da Andreas Schulz gli portò l’arma, andò in un angolo dell’appartamento chiuso alla vista esterna, e maneggiando la pistola solo coi guanti, mentre lui non vi aveva fatto attenzione, gliela tenne di fronte con un ghigno), ma non aveva mai messo in conto in via volontaria cosciente, od anche solo accettandone con indifferenza l’eventualità, che Mundlos e Böhnahrdt avrebbero commesso degli assassinii.

La Procura ha sostenuto che per quanto Carsten Schultze sia stato ampliamente credibile nella sua confessione, nonostante tutto abbia cercato di sgravare le proprie responsabilità. Fino al 1999 teneva i contatti coi fuggiaschi con appuntamenti telefonici in cabine a gettoni, ma dalla consegna della pistola fino ad un primo arresto dissuasivo, durato dieci giorni, Mundlos e Böhnhardt vollero che agli abboccamenti telefonici fosse sempre presente anche Wohlleben. Schultze, ha dichiarato che dopo essere uscito dal carcere il 21 agosto 2000 distrusse la SIM e non ebbe più contatti coi tre ricercati. Ha riferito peraltro di un’occasione, nella quale dopo aver parlato con Böhnhardt e Mundlos, Ralf Wohlleben sbottò con un ghigno “gli idioti hanno sparato a qualcuno” allorché ha pensato “speriamo non con quell’arma” che ho portato io.  Per gli inquirenti il fatto andrebbe tuttavia collocato prima della consegna della pistola Czeska 83 e gli sarebbe dovuto essere già chiara la pericolosità del gruppo. Perciò portando la pistola era ideologicamente connivente con gli omicidi. Per gli inquirenti lo scambio di battute era da ricondurre alla rapina ad un supermercato della catena Edeka il 18 dicembre 1998 nella quale furono esplosi dei colpi contro il testimone Falco K. che si mise al riparo, non invece del primo delitto avvenuto nel 2000 del quale è improbabile i fuggiaschi avrebbero parlato al telefono. Per l’avvocato difensore invece, al contrario, Carsten Schultze non ha mai manipolato a fini tattici la sua testimonianza. Nel 1998 aveva da poco avuto l’incarico di tenere i contatti con i tre discesi in clandestinità ed il primo compito di rilievo fu l’accesso all’appartamento sigillato di Beate Zschäpe il 26 agosto 1988. Non è verosimile che appena scappati e con la paura di essere acciuffati i fuggiaschi parlassero liberamente per telefono, né che Wohlleben avesse confidenza in tale misura con Schultze. L’episodio per i difensori è indefettibilmente da collocarsi quando il loro assistito già usava un cellulare per comunicare coi fuggiaschi. Il fatto più plausibilmente, secondo il difensore, è da riferire a dei colpi con un fucile ad aria compressa esplosi per “divertimento” da Böhnhardt ad un operaio in un cantiere, la cui prova è stata trovata dal collega di parte civile Hardy Langer, un episodio risalente a quando ormai Schultze e Wohlleben si conoscevano da due anni. Accompagnando la notizia con le risa Wohlleben avrebbe effettivamente fatto sì che Schultze potesse solo avere vaghe preoccupazioni su cosa Mundlos e Böhnhardt stessero facendo.

 

Quando uscì dalla scena di destra, un processo iniziato nell’estate 2000 dopo la già citata breve detenzione dissuasiva, Carsten Schultze non pensò ad informare la polizia perché si vedeva solo nel suo ruolo di tramite coi fuggiaschi. Né la sua corresponsabilità gli emerse in primo piano quando si sottopose ad una psicoterapia tra il 2009 ed il 2010 focalizzata a sviscerare il rapporto col padre e perché avesse aderito all’estrema destra. Della misura di quello che hanno fatto Mundlos e Böhnhardt ha avuto coscienza solo dopo il 4 novembre 2011 all’emergere dell’esistenza del gruppo ed ha pianto al pensiero che avrebbe potuto magari evitare dei morti, indica l’avvocato difensore. Schultze, a differenza di Helbig e Gerlach che dovevano consegnare un involucro chiuso, senza necessariamente sapere che portavano ai tre in clandestinità una pistola, Schultze aveva dovuto prelevare l’arma Czeska 83 e portarla a Wohlleben probabilmente proprio perché doveva poter ricordare che quella era l’arma dei delitti che avrebbe dato ad essi una firma. Ad ulteriore riprova della credibilità di Carsten Schultze, ha affermato l‘avvocato Hösl, parla anche il fatto che ha riferito che Mundlos e Böhnhardt avrebbero desiderato avere un’arma di fabbricazione tedesca. Evidentemente volevano garantirsi maggiore facilità di trovare proiettili. I primi quattro omicidi di Enver Simsek, Abdurrhaim Ozüdogru, Süleyman Tasköprü ed Habil Kilic tra il 9 settembre 2000 ed il 29 agosto 2001 furono infatti eseguiti con proiettili del fabbricante sudcoreano Poongsan Metal Company la serie però si interruppe e riprese solo dopo due anni e mezzo il 25 febbraio 2004 con l’omicidio di Yunus Turgut eseguito con proiettili del fabbricante ceco Sellier e Bellot. Per l’vvocato difensore la parentesi fu dovuta alla necessità di trovare le nuove munizioni e poter usare la stessa arma, perché questo era un fattore determinante per gli assassini.

 

Per l’avvocato Jacob Hösl Carsten Schultze non è paragonabile agli altri imputati. Non a Wohlleben che non ha abiurato le sue idee ed in aula ha cercato di difendersi suggerendo che sia in corso sottotraccia la morte del popolo tedesco; non ad Holger Gerlach che ebbe contatto con i tre discesi in clandestinità ancora nel 2011 e dopo non ha disdegnato di andare ancora a concerti di estrema destra (era invitato a partecipare alla Hammerfest di Milano prima che lo arrestassero); non ad André Eminger che ai due deceduti Uwe Böhnhardt ed Uwe Mundlos ha eretto un altarino in casa e su Beate Zschäpe, l’avvocato Hösl sorvola. Al contrario Schultze <si è sentito obbligato solo alla verità> e le sue dichiarazioni <non sono mai state inconsistenti, contraddittorie o altrimenti non comprensibili>. Insomma, l’avvocato Hösl ha voluto fare emergere il suo assistito come un ingenuo, evidenziando che in fondo andò persino all’appuntamento per consegnare la Czeska 83 con un maglione con la sigla “ACAB” (All cops are bastards) che i due terroristi gli fecero subito levare per non saltare nell’occhio. E suggerisce che fu proprio per il fatto che Schultze era un novizio che Ralf Wohlleben, che pure non aveva cieca fiducia in lui, lo prescelse per consegnare l’arma e non la affidò invece all’amico di lunga data Jürgen Helbig, od a Holger Gerlach che il trio in clandestinità già conosceva.

 

Su un punto la difesa di Carsten Schultze ha aderito in toto alla ricostruzione dell’accusa: il nucleo di Clandestinità nazionalsocialista era di solo tre persone. Ralf Wohlleben si incontrò con loro l’ultima volta nell’estate 2001 quando emerse che Tino Brandt, il fondatore del Thuringer Heimat Schutz, era stato al soldo dei servizi di sicurezza del Verfassungsschutz, fatto che creò molta incertezza nei fuggiaschi e scatenò una lunga discussione per ricostruire se avrebbe potuto sapere dove si nascondevano. Carsten Schultze aveva già abbandonato da circa 8 mesi la scena di destra. Poi nel 2002 ci fu l’ultimo abboccamento anche con i genitori di Uwe Böhnahrdt. Il gruppo dopo tagliò ogni contatto, doveva poter portare a termine la sua missione senza rischi di essere scoperto. Credere in una rete di sostenitori coscienti significa non aver capito che il nucleo terroristico poteva continuare a colpire solo confidando nell’assoluta segretezza; con ciò il legale non escluderebbe tuttavia che vi siano stati in qualche modo dei fiancheggiatori ignari. L’ipotesi è però difficile da coniugare con le conclusioni della Commissione Parlamentare d’inchiesta presieduta dal deputato Clemens Binninger (CDU) che ha affermato che diversi indizi indicano che il trio godesse di diversi coadiutori.

 

L’avvocato Johannes Pausch ha indicato che ad ogni modo per l’imputato il peso delle sue responsabilità sarà un onere che lo graverà per tutta la vita ed ha aggiunto all’indirizzo dei parenti delle vittime ed i loro avvocati che magari saranno delusi se la Corte pronuncerà un’assoluzione piena per Carsten Schultze, ma riflettano sul fatto che l’imputato ha mostrato sincero pentimento e per tutta la sua vita continuerà ad essere oberato dalle sue responsabilità. <Un’assoluzione non lo libererà da questo fardello.>. Come a dire, ci pensino prima di ricorrere avverso l’assoluzione, se ci sarà. E fuori udienza il legale ha aggiunto ancora che cinque anni di processo sono stati per Schultze già una pena come il carcere. Carsten Schultze in effetti è l’unico che ha manifestato pentimento, ha chiesto in modo credibile perdono e non è immaginabile possa costituire di nuovo un rischio per la società. <La coscienza di avere contribuito con il suo agire a nove omicidi per motivi razzisti> ha indicato anche l’avvocato Hösl <lo accompagneranno tutta la vita>. Non era però incapace quando ha aiutato i fuggiaschi armandoli; una dichiarazione di piena innocenza non parrebbe congrua, quanto semmai una pena limitata a due anni con la sospensione condizionale.

 

Carsten Schultze ha ascoltato tutte le conclusioni dei suoi avvocati guardando in avanti, ma come rinsaccato in sé stesso. I co-imputati Wohlleben e Zschäpe invece hanno seguito le conclusioni dei due difensori di Schultze quasi sempre con volto scuro e tirato. Nei programmi del Senato giudicante la settimana prossima toccherà ai difensori di André Eminger e di Holger Gerlach, quella dopo a quelli di Ralf Wohlleben, presentare le loro rispettive conclusioni ai giudici.

 

 

Immagine di copertina: gli avvocati Johannes Pausch e Jacob Hösl, foto dell’autore

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TAG: Clandestinità nazionalsocialista (NSU), Jacob Hösl, Johannes Pausch
CAT: Germania, Giustizia

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