L’amore per i giudici, il dovere e il diritto di poterli criticare

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12 Aprile 2015

Ho un amore antico e profondo per il mestiere di giudice e vi chiedo la licenza di poterlo spiegare con un ricordo di adolescente. Da cattivo liceale si poneva il problema non secondario di sfangare l’intera mattinata quando decidevi di dare buca a scuola, di “bigiare”, nordicamente parlando. Per un po’ potevi anche bighellonare per Milano, ma a un certo punto si poneva la necessità di un presidio, di un luogo fisico dove ritirarti, anche a protezione da eventuali sguardi indiscreti. Un posto era la Rinascente ma dopo un salire e scendere dodici-quindici volte, ti eri ampiamente fracassato gli zebedei. Ci voleva altro e cosa allora meglio di un cinema? Due cinemini pregevoli in pienissimo centro, a due passi dal Duomo, si chiamavano Centrale e Rubino, entrambi di livello culturale superiore per cui denominati d’essai. Ora, la cosa in sè risolveva, ti piazzavi lì al calduccio soprattutto d’inverno e poi, finito il film, ancora quattro passi per ossigenarti in vista della “Grande Finzione” e poi via a casa con la faccia come il bronzo di fronte ai genitori, quella sì una vera prova d’artista. Confesso che dopo aver visto qualcuno di quei film, ben presto mi risultarono indigeribili, qui parliamo di Rossellini, Wajda, Tarkovsky, mica degli angeli che mangiano fagioli (cit.), per cui abbandonai il gruppo degli amici impegnati, per affrontare nuove avventure.

La nuova avventura, esaltante, lo dico in premessa, fu Palazzo di Giustizia. Convenni in assoluta solitudine che quel luogo racchiudeva tutto quello che uno scolaro perdigiorno potesse pretendere, intanto il perfetto anonimato, confuso com’eri tra mille e mille persone, poi l’idea protettiva che passare lì qualche ora avrebbe aumentato il tuo tono culturale, con tante persone importanti e autorevoli com’erano giudici e avvocati, soprattutto in un momento in cui l’autostima era sotto i piedi visto che ti sottraevi volontariamente all’insegnamento scolastico.

Sceglievo la causa da seguire in base alle umanità. Scrutavo le facce dei parenti in attesa fuori dall’aula, il grado di tensione, i vestiti, i dialetti, le conversazioni. Poi davo un’occhiata agli avvocati con la toga scesa sulle spalle, valutandone il possibile eloquio su base francamente immaginaria. Alla fine tracciavo una veloce ipotesi di lavoro e facevo la mia scelta. Generalmente l’imputato veniva tradotto in manette tra due carabinieri e interessante, sul piano della suggestione, erano quegli attimi in cui passava fisicamente davanti ai parenti. Erano gli stessi carabinieri a rallentare il passo, ad ammorbidire lievemente la presa, consapevoli che regalare qualche attimo prezioso all’amore dei suoi cari avrebbe fatto dormire meglio tutti quanti. La mia minore età non mi consentiva la permanenza a Palazzo, ma non ero poi lontano dai diciotto e nessuno avrebbe potuto rimproverarmi con certezza anagrafica: «Ehi marmocchio, che ci fai qui?»

Entrati in aula, i giochi si facevano solenni. Il mio eroe era il giudice, il presidente del collegio giudicante. Lo guardavo come un autentico presidio di legalità, di sicurezza istituzionale, aspettavo solo le sue interruzioni, a testi o ad avvocati, per confermarmi nell’idea che quel signore poteva permettersi cose che a nessun altro erano concesse. Amavo però chi sapeva fare uso di ironia anche nei momenti drammatici e qui lo dirò fieramente: erano soprattutto i giudici meridionali. La gabbia spesso era immensa per un solo imputato. Dietro la transenna, come tifosi ammassati in pochi metri quadri, i parenti vivevano una partita molto speciale. Partecipando, certo. Il silenzio perfetto non c’è mai in aula, quando un processo è teso, quando anima i caratteri, quando magari contrappone testimone a imputato. Gli avvocati poi erano uno spasso. Come molti anni dopo mi ha spiegato scientificamente Luigi Ferrarella, serissimo cronista giudiziario del Corriere della Sera, ci sono avvocati magari non così celebrati ma professionalmente solidissimi, che spesso portano a casa il risultato, e poi ci sono quelli superfamosi che utilizzano il processo solo per una purisima rappresentanzione estetica delle loro capacità tecniche, il cui risultato è con buona frequenza il massimo della pena per il loro assistito.

Ho raccontato del mio amore antico e profondo per il mestiere di giudice, perché oggi sento che le cose sono molto cambiate. E questo ultimo episodio tragico accaduto a Palazzo ha prodotto una spaccatura che mai avrei immaginato. Qui a Stati, con la serenità di chi non ha interessi sotterranei, nè padroni a cui rispondere (i maggiori azionisti del giornale sono proprio i giornalisti che ci lavorano) abbiamo pensato fosse giusto non assecondare quella corrente di pensiero, per noi una deriva, secondo cui il folle gesto di Giardiello si era generato all’interno di una diffusa ostilità nei confronti della magistratura come categoria. Insomma quel “certo clima” di cui ha parlato Gerardo Colombo, ma che è stato sorprendentemente evocato anche dal Capo dello Stato. E che abbiamo letto nero su bianco su un editoriale del Sole 24 Ore.

Lo dirò con la franchezza che ci riconosciamo, gentili lettori. Mi sono girati anche un po’ i coglioni quando ho visto che il nostro punto di vista era discretamente sovrapponibile a quello de Il Giornale, che in maniera molto diretta in prima pagina parlava di “morti di serie B” e anche della necessità in questo momento di non “santificare” i magistrati (Feltri). Mi sono girati anche un po’  i coglioni, ma dopo un buon caffè ho pensato che la libera circolazione delle idee può produrre anche effetti stravaganti (o irritanti), ma soprattutto a rimettermi nel giusto mood è stato il pensiero inoppugnabile che quelli un padrone lo hanno avuto davvero per vent’anni ed editorialmente lo hanno servito anche con una certa coerenza.

Amando profondamente il mestiere di giudice, sapendo dell’importanza capitale che riveste in una democrazia compiuta, troviamo non soltanto giusto, ma onestamente indispensabile poterlo criticare quando ve ne sia materia. E qui materia ce n’è molta, soprattutto perché sono in tanti a non avere il coraggio di dire le cose chiare. Si allude, si ammicca, si va per immagini, ma non si dice mai una parola chiara. Cari signori giudici, potete dire con proprietà di fatti, numeri, leggi, che il governo Renzi vale il governo Berlusconi in termini di considerazione per la classe dei magistrati? Potete davvero sostenere che c’è un clima di delegittimazione per il fatto che il governo Renzi ha messo mano alla riforma della responsabilità civile? O per il fatto di aver toccato il monte ferie? Ditelo con chiarezza, se questi sono i motivi. E giusto per non fare le solite anime belle, una parola chiara la diciamo noi: quella riforma della responsabilità era idealmente doverosa, giusta, legittima, solo che è stata fatta con i piedi (ne abbiamo parlato nei giorni scorsi). Il ministro Orlando tecnicamente è stato un incapace. Ma un governo che fa, e che dunque può anche sbagliare, può solo per questo essere tacciato di delegittimazione dei giudici? Perché se così stanno le cose, nessun governo potrà mai mettere le mani a una qualsiasi riforma della giustizia, non uno di sinistra non uno di destra.

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CAT: Giustizia

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