I dannati del Jobs Act: attendendo la pronuncia della Corte Europea

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26 Agosto 2019

La Corte Costituzionale, con la sentenza, sentenza 08/11/2018 n° 194, dichiarò illegittimo l’articolo 3, comma 1, del decreto legislativo n. 23/2015 (c.d. Jobs Act) contenente la riforma del mercato del lavoro che ha introdotto il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti.

Nella sentenza emanata dai giudici costituzionali, la previsione di un’indennità crescente in ragione della sola anzianità di servizio del prestatore di lavoro, collide coi principi di ragionevolezza e di uguaglianza, contrastando quindi col diritto e la tutela del lavoro impressi agli articoli 4 e 35 della Costituzione.

Il comma dichiarato incostituzionale stabilisce che: “Il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità”.

Un articolo che il Decreto Dignità non ha modificato, lasciando inalterata parte della norma che prevede una determinazione dell’importo dell’indennità spettante al lavoratore ingiustificatamente licenziato, calcolata in modo proporzionale all’anzianità di servizio del lavoratore.

Il Jobs Act prevede al momento un risarcimento pari a due mesi di stipendio per ogni anno di anzianità di servizio, con un limite minimo di quattro mesi di stipendio ed un massimo di ventiquattro mesi.

Il Decreto Dignità ha ritoccato questi limiti, portandoli rispettivamente a 6 e 36 mesi, ma non ha modificato il meccanismo di determinazione, lasciandolo legato all’anzianità di servizio.

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Secondo l’ordinanza, il decreto del 2015, non realizza “alcun equo contemperamento tra diritto al lavoro e interesse dell’impresa, o tra la tutela del posto di lavoro e l’interesse all’occupazione”

Il Tribunale di Milano ha rinviato alla Corte di giustizia dell’Unione Europea la parte del Jobs act che disciplina i licenziamenti collettivi, chiedendo che valuti se l’esclusione della reintegra nel posto di lavoro è compatibile con i principi di parità di trattamento e di non discriminazione e con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione.

Nell’ordinanza datata 5 agosto non mancano giudizi netti sull’impianto della legge, che secondo il giudice non ha raggiunto i risultati sperati in termini di aumento dei posti stabili e non realizza “alcun equo contemperamento tra diritto al lavoro e interesse dell’impresa, o tra la tutela del posto di lavoro e l’interesse all’occupazione quale fine di interesse generale che giustifica la riduzione delle tutele“.

La vicenda riguarda una sola dipendente non reintegrata, “Stabilizzata dopo il Jobs Act”

Tutti i colleghi della donna che avevano impugnato il licenziamento collettivo deciso nel gennaio 2017 dall’azienda hanno ottenuto la reintegrazione nel posto di lavoro. Lei no perché era stata stabilizzata il 31 marzo 2015, 24 giorni dopo l’entrata in vigore del Jobs Act.

Il suo licenziamento è quindi disciplinato da “un regime sanzionatorio meramente indennitario e oggettivamente differente in senso peggiorativo rispetto a quello” precedente, che prevedeva la reintegrazione nel posto di lavoro e il risarcimento del danno fino ad un massimo di dodici mensilità, oltre il versamento dei contributi.

Secondo l’ordinanza, ciò incide sul “giudizio di aderenza ai parametri costituzionali e del diritto comunitario necessario ai fini della selezione del sistema di tutela applicabile al licenziamento intimato”.

Infatti, l’articolo 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, definisce che:

–          “Ogni lavoratore ha il diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali”.

L’articolo 24 della Carta sociale europea sancisce “il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione”.

Un precedente ricorso, ha ritenuto che “la legislazione finlandese, nel prevedere un limite di 24 mesi di retribuzione quale soglia risarcitoria massima onnicomprensiva del danno”, esattamente come il Jobs Act, “integri una violazione dell’art. 24 della Carta in quanto inidonea ad assicurare che la compensazione economica del danno sia in ogni caso commisurata alla perdita effettivamente sofferta”.

La discriminazione in base alla data di assunzione

Il diritto dell’Unione, per il giudice:

–          “non può, inoltre, ritenersi compatibile con un sistema di tutela dei licenziamenti che, in presenza di situazioni non differenziate, determini una difformità di trattamento, dato che un duplice modello sanzionatorio confliggerebbe con il principio di parità di trattamento”.

–          “L’art. 20 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione statuisce che “tutte le persone sono uguali davanti alla legge” intendendosi per “legge” il complesso di norme che caratterizzano il sistema normativo dell’Unione.

–          Il principio de quo deve, quindi, trovare piena applicazione con riferimento ai licenziamenti collettivi: “la diversa data di assunzione non può avere alcuna rilevanza ai fini di giustificare una tutela difforme ma concorrente”.

E “una differenziazione normativa del regime di tutela basata sul solo fattore “tempo”, rappresentato dalla data di assunzione in realtà costituisce un elemento oggettivamente discriminatorio indiretto“.

Il giudice, in considerazione di tutto ciò, ha ritenuto di chiedere alla Corte di Giustizia europea di pronunciarsi per valutare due aspetti:

–          se i principi di parità di trattamento e di non discriminazione contenuti nella legislazione europea “ostino alle previsioni normative” del Jobs Act che, “con riferimento ai licenziamenti collettivi illegittimi per violazione dei criteri di scelta, contengono un duplice regime differenziato di tutela” a seconda della data del contratto o della conversione;

–          se “le previsioni contenute negli artt. 20 e 30 della Carta dei diritti e nella direttiva 98/59/CE ostino ad una disposizione normativa come quella che introduce per i soli lavoratori assunti (ovvero con rapporto a termine trasformato) a tempo indeterminato a decorrere dal 7 marzo 2015” una disposizione secondo cui non è possibile la reintegra e c’è invece “un concorrente sistema di tutela meramente indennitario, inadeguato a ristorare le conseguenze economiche derivanti dalla perdita del posto di lavoro e deteriore rispetto all’altro modello coesistente”.

Nell’ordinanza, viene espressa una valutazione sui contenuti del Jobs Act, sottolineando per esempio che:

–          “il depotenziamento del sistema di tutela appare evidentemente idoneo ad attenuare l’effetto dissuasivo di una procedura tesa ad assicurare una parità selettiva, esponendo irragionevolmente ed in forma inadeguata i soggetti meno tutelati al rischio di estromissione dal consesso lavorativo in forza di una scelta normativa nella quale appare del tutto assente qualsiasi altra forma di bilanciamento“.

Viene inoltre definita “paradossale” l’idea:

–          “che dall’abbassamento della tutela della stabilità occupazionale possa discendere un rafforzamento dell’occupazione a tempo indeterminatoin procedure di licenziamento collettivo, nella quale l’eliminazione dell’istituto della reintegra nel posto di lavoro, in favore di una sanzione di carattere indennitario, finisce persino per agevolare l’espulsione dei neo-assunti“.

Esauriti gli effetti degli sgravi contributivi, connessi con le assunzioni, l’intervento legislativo dimostra tutta la sua inadeguatezza.

La sentenza della Corte Costituzionale 194/2018

 

 

TAG: avv Monica Mandico, Jobs Act
CAT: Giustizia, Lavoro autonomo

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