Nei giorni di Genova, al G8 del 2001, chi scrive aveva appena compiuto ventitre anni, stava per laurearsi in giurisprudenza con una tesi in diritto penale, era idealista, sperava di fare dei suoi studi lo strumento per rendersi attore di un mondo migliore, e si professava genericamente e moderatamente di sinistra. In quel venerdì in cui morì Carlo Giuliani, con diversi dubbi sull’impianto del movimento ma con la sincera convinzione che gli obiettivi e i valori fossero quelli giusti, ero a Genova. A curiosare e a manifestare. A manifestare, molte volte, dopo, sono stato per protestare contro lo sconcio che è stata quella piazza. Ricordo con antico piacere e giovanile rabbia il discorso di Massimo D’Alema in Parlamento, quando a uno Scajola strafottente spiegava che lui, D’Alema, aveva nostalgia della Democrazia Cristiana, quella vera, che non metteva in campo repressioni di tipo cileno che, allora, non esitò a definire fasciste, prendendo la parola a Montecitorio. Nel giovanile errore di definirmi dalemiano non rinnego che quelle parole ebbero, meritatamente, una parte importante. In generale, per le nostre generazioni, per chi ha vissuto Genova e quel 2001 come luogo di partecipazione ideale e politica, niente è stato più uguale. A Genova i più scettici di noi, i meno coraggiosi, cioè quasi tutti, hanno per un attimo gridato al fascismo e avuto paura: perché era l’unica cose sansata e razionale da fare.
Oggi, allora, per quelli che come noi arrivarono a Genova con animo diverso e di là tornarono tutti con la stessa rabbia, dopo aver visto l’impensabile, nell’Italia della Seconda Repubblica, dovrebbe essere un bel giorno. Trapela sulle bacheche di Facebook e nei tweet di molti di noi una sacrosanta soddisfazione, comprensibilissima umanamente nel commentare quanto detto in forma di sentenza dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo di Strasburgo, che chiama “tortura” i fatti della scuola Diaz, l’orrendo pestaggio scatenato nel cuore della notte, e oltre a dire a chiare lettere le responsabilità di chi menava e del paese Italia in nome del quale lo faceva, dice qualcosa in più: incolpa la legge penale italiana. L’assenza del reato di tortura, spiegano i giudici di Strasburgo, ha impedito di arrivare ad accertare le responsabilità dei colpevoli. Un reato che è previsto nelle convenzioni internazionali già ratificate dall’Italia addirittura nel 1989, ma che poi non è mai stato inserito, seguendo la procedura legislativa prevista dalla nostra costituzione, nella nostra legge penale, cioè il codice penale. E per questo, non essendo punibili in base a una legge che non fosse vigente al momento della commissione del fatto, non era possibile applicare la fattispecie di tortura ai fatti di Genova. Quegli stessi fatti consumatisi alla scuola Diaz che, secondo la Corte di Strasburgo, erano atti di tortura, per come essa è definita dalla convenzioni internazionali ratificate ma non applicate, tra gli altri, dall’Italia. Ma è davvero così? Davvero con un reato in più il destino di questa vicenda sarebbe stato diverso?
Riavvolgiamo il nastro. Proviamo brevemente a ricordare i fatti giudiziari, e quelli accertati in giudizio. Alla spedizione punitiva partecipano circa 400 agenti. Molti più di quanti ne servivano, diverse testimonianze riferiscono, nelle aule dei tribunali (Genova, Corte d’appello, Cassazione), che molti degli agenti partecipanti si aggregarono volontariamente. La situazione perfetta per chi deve indagare: erano tantissimi, hanno fatto una bolgia infernale, erano motivati a menare e fare male, si sentivano sicuramente coperti, ed erano in gran parte motivati ad essere lì e a fare quello che facevano. Erano, secondo le testimonianze convergenti dei presenti, coperti in volto e sostanzialmente irriconoscibili. Infatti, in gran parte, non furono riconosciuti: anche perché agirono in fretta, manganello alla mano, e al buio. Una spedizione che fu patrocinata dagli alti dirigenti delle operazioni, come conferma l’ultima sentenza della Cassazione, che ha ritenuto colpevoli, in via definitiva 25 agenti (pochini rispetto alle centinaia) e interdetto tre alti dirigenti che poi, anni dopo, sono stati colpiti anche da limitazioni delle libertà personali, seppur non in carcere. Fu invece assolto con formula piena Gianni De Gennaro, allora potente capo della Polizia e oggi presidente di Finmeccanica.
Si dice, si è detto, si dirà, che le pene limitate, le molte incongruenze, le tante assoluzioni nelle vicende Diaz e Bolzaneto sono state colpa della famigerata prescrizione. Si è detto e si dirà che il reato di Tortura, con pene più elevate, avrebbe evitato di incappare nella prescrizione del reato, che è sempre commisurata alla misura delle pene previste dalla cornice edittale del reato. Anche questo però è vero solo in parte. Le lesioni gravi o gravissime (di queste parliamo, nel caso della Diaz) prevedono già di per sé pene prossime ai dieci anni, nella parte alta della cornice edittale, e le aggravanti come l’esercizio di crudeltà e violenza, o l’abuso del potere derivante dallo status di incaricato di pubblica sicurezza, in teoria alzano ulteriormente la misura della punizione possibile. In teoria, non in pratica, una misura sanzionatoria non tanto diversa da quella ragionevolmente prevedibile Ma anche il processo – i processi, meglio sarebbe dire – per il G8 di Genova non è stato ovviamente esente da tutte le pecche della giustizia italiana. Lentezza, udienze col contagocce, impugnazioni pretestuose, aule generalmente intasate. Cose vere sempre: figurarsi se ad essere imputati sono i vertici di polizia. A questo quadro generale, di inefficienza di un sistema che avrebbe bisogno di riforme drastiche e non di nuovi reati, si aggiunga un dato particolare: nel 2006, da pochi mesi insediato al governo, Romano Prodi si fede promotore, tramite il ministro della Giustizia Clemente Mastella, di un indulto. Cioè, di uno sconto di pena di tre anni su tutti i reati commessi fino al giorno prima dell’entrata in vigore del decreto. La situazione delle carcere era (ed è) emergenziale, è vero, ma di quell’indulto beneficiarono naturalmente anche tutti i reati in questione, non essendo esplicitamente esclusi.
E allora, davvero se avessimo avuto nel nostro ordinamento il reato di tortura sarebbe stato più facile punire come meritavano tutti i responsabili dei gravissimi fatti di Genova? La risposta, ragionevolmente, è no. Il reato di tortura nel nostro ordinamento probabilmente serve, visto che siamo il paese dell’Unione Europea più spesso condannato per la violazione di convenzioni internazionali. Ma, molto di più, serve un ordinamento giudiziario limpido e veloce. Una volontà politica chiara, dura, netta, che ricordi a tutti che chi merita, nel fare il suo lavoro di poliziotto, va salvaguardato e tutelato e premiato, ma chi disonora la bandiera dello stato non ha lo stato dalla sua parte. E serve, infine, una volontà dei poteri dello stato di andare a fondo e di dire tutta la verità anche quando, ad agire, sono stati “servitori dello stato”. I nomi di Stefano Cucchi e Federico Aldrovandi restano lì, scolpiti nella memoria di tutti noi. Come quello della scuola Diaz, della caserma di Bolzaneto e del G8 di Genova: dove il male è andato troppe volte impunito, non per assenza di reati e leggi, ma per assenza di volontà.
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