La crisi dei 30 anni (almeno): Modiano e Onado raccontano le “Illusioni perdute”

31 Ottobre 2023

Le privatizzazioni all’italiana. Un punto di arrivo di tanti errori, o un punto di partenza per una nuova e interminabile – e infatti ancora perdurante – crisi di sistema? Potrebbe anche essere questa domanda la chiave di lettura per il libro Illusioni perdute. Banche, imprese, classe dirigente in Italia dopo le privatizzazioni, scritto da Pietro Modiano e Marco Onado e pubblicato dal Mulino in questo Ottobre che alle ormai tradizionali fatiche delle finanze italiane aggiunge il consolidarsi di nuove e antiche tensioni internazionali, frutto di un disordine globale nel quale il quadro tratteggiato dal bel lavoro di Modiano e Onado si inserisce – ahinoi – perfettamente. Il viaggio proposto dai due autori – manager che ha lavorato per decenni al vertice del sistema bancario e imprenditoriale, Modiano; economista grande esperto di diritto ed economia bancaria, Onado – merita di essere ripercorso qui brevemente, perchè è molto di più di un viaggio attorno e dentro la stagione delle privatizzazioni, ma materializza piuttosto uno sguardo grandangolare sulla storia economica e politica italiana degli ultimi 50 anni, da cui le classi dirigenti nazionali avrebbero molto da imparare e, per molti, anche qualcosa per cui chiedere scusa.

Le privatizzazioni all’italiana, la frettolosità con cui sono state concepite e realizzate, l’impressionante trasferimento di ricchezza che hanno realizzato a favore del privato senza i frutti di efficienza e competitività che erano stati promessi, non nascono dal nulla. Modiano e Onado raccontano – a mo’ di premessa, come fosse un flash back – i decenni che le precedono. Il boom economico che si infrange sulle crisi di inizio anni Sessanta è stata esso stesso un’illusione, o forse l’ultimo slancio vitale di un paese uscito a pezzi dal Fascismo ma guidato, almeno per un po’, da una classe dirigente di grande livello e beneficiata dal dono della lungimiranza, oltre che dell’opportunità di poter guardare oltre il proprio tempo. Ma gli anni Sessanta che si aprono col governo Tambroni e si concludono con la strage di piazza Fontana restituiscono con chiarezza la fotografia di una democrazia fragile, destinata a essere fondamento per un’economia egualmente instabile, in cui potenzialità e campioni erano fallati da buchi neri e rischi vitali. Gli anni che seguono portano a maturità, se così si può dire, i morbi che da lungo tempo incubavano: l’esplodere della corruzione come luogo di regolamento dei conti e di compensazione opaca tra privato e partiti; l’incapacità del Pci di Berlinguer di uscire dalle visioni messianiche della “questione morale” per trasformarle in pressione per una compiuta regolamentazione del mercato, come avrebbe dovuto fare chi camminava verso la socialdemocrazia; il pentapartito di governo come trionfo della partitocrazia spartitoria; il craxismo come retorica di una modernizzazione che nei fatti era solo mimesi a un sentire contemporaneo, non necessariamente modernizzatore; la nascita del fenomeno Berlusconiano come, in fondo, compimento e conseguenza perfetta di tanti errori. I pochi coraggiosi oppositori di un sistema che pagavano magari con la vita, come Giorgio Ambrosoli, o con arresti ingiusti, come Paolo Baffi e Mario Sarcinelli.

Così, con le casse vuote, senza un’idea di futuro, con un’intera classe dirigente spazzata via, l’Italia arriva agli inizi degli anni Novanta, e per rimediare sembra esserci solo un modo: vendere i gioielli di famiglia. Smembrare un patrimonio di partecipazioni statali, e farlo anche in fretta, ora sostenute dalle retoriche dei liberisti di lunga scuola, ora sull’onda delle parole di chi arrivava da tutt’altra scuola, come Massimo D’Alema. Il risultato è curioso: le privatizzazioni integrali, come quella di Telecom, hanno caricato di debiti società che erano sane; mentre quelle parziali – Eni, Enel, Finmeccanica-Leonardo – hanno lasciato il controllo e la nomina del management allo Stato, col risultato che le aziende in questione sono ancora tra le poche capaci di competere nel mondo. Già, il mondo. L’altra grande scomparsa dall’economia italiana è proprio la dimensione globale, e due studiosi e praticanti dei mercati globali per definizione – quelli dei capitali – come Modiano e Onado lo vedono con chiarezza. Le medie imprese di eccellenza, il giusto orgoglio dell’economia italiana, sono tuttavia troppo poche per incidere davvero. Il miglior manager italiano, che capiva di finanza e di manifattura, Sergio Marchionne, non ha potuto finire un lavoro che comunque aveva portato Fiat, dopo tanti errori, a sopravvivere con la testam, il cuore e le braccia lontano da noi. Per il resto, una pletora di microimprese, che oltre alla dimensione e ai metodi, pagano il limite di non essere più in alcuna filiera, perchè non c’è politica industriale e non ci sono capifila dimensionali. E quindi? Che fare?

Il libro, fin dal titolo che ricalca quello del capolavoro di Balzac, non dissimula il pessimismo e i rimpianti. Alla fine dell’opera del grande scrittore francese, dopo una serie di sconfitte e disillusioni, c’era almeno il destino sereno e privatissimo di una vita agiata e ritirata in campagna. Sembra, a volte, il destino di un paese che ha smesso di pensare alla sua storia produttiva per diventare un grande Chianti, in cui i ricchi possano almeno godere del nostro buon vivere. Anche questa sarebbe, di tutta evidenza, un’illusione. Ci sono vie d’uscita? Gli autori si appellano all’ottimismo della volontà, e conoscere la storia da cui si viene è anche l’unico antidoto perchè gli errori che l’hanno costruita non si ripetano all’infinito. Dunque, un libro sicuramente da avere, da studiare, da meditare, e da discutere.

La prima presentazione milanese si terra a Milano, alla Casa della Cultura, via Borgogna 3, Milano, venerdì 3 novembre, alle ore 18.00.

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CAT: Governo

Un commento

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  1. dino-villatico 6 mesi fa

    “Così, con le casse vuote, senza un’idea di futuro, con un’intera classe dirigente spazzata via, l’Italia arriva agli inizi degli anni Novanta, e per rimediare sembra esserci solo un modo: vendere i gioielli di famiglia”. Che altro dire? Che siamo anche liberisti imperfetti. Coniugato come appropriazione del bene comunque e non come patrimonio da amministrare con trasparente concorrenza.

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