Lo scacco matto di Matteo Renzi
È da un anno e mezzo che Matteo Renzi ha iniziato una partita a scacchi giocata spesso e volentieri sul filo del rasoio. Una partita basata sul ricatto – più o meno esplicito – del ritorno alle urne e giocata sapendo di avere il coltello dalla parte del manico. D’altra parte, oggi come oggi, a chi converrebbe andare al voto? Non certo alla minoranza Pd, che si troverebbe falcidiata – essendo Renzi anche il segretario del Partito Democratico; non al Nuovo Centrodestra, che conta tantissimo al Senato e conta niente nel paese; non a Forza Italia, che ha un peso elettorale dimezzato rispetto al 2013.
In questo, però, Renzi ha avuto la faccia tosta di proseguire in un bluff abbastanza evidente: tornare alle urne senza l’approvazione della sua pasticciata riforma del Senato non converrebbe nemmeno a lui. Come potrebbe andare al voto con il proporzionale puro del Consultellum (ovvero il Porcellum rivisto dalla Corte Costituzionale) che avrebbe con tutta probabilità l’unico esito di un ennesimo governo di larghe intese da lui presieduto e inviso alla stragrande maggioranza del paese?
Il bluff, comunque, gli è servito: a tenere a basa i dissidenti del Partito Democratico (che fino a oggi hanno abbaiato piegandosi poi su tutto, pure sull’iperliberista Jobs Act); a tenere in vita il Patto del Nazareno finché l’ha ritenuto utile (e forse sbagliando i calcoli quando ha deciso di mandarlo all’aria); a costringere il Nuovo Centrodestra a essere una costola del Pd sottomessa in tutto al volere di Renzi.
Questa partita a scacchi (o a poker?), adesso, arriva al punto che fin dall’insediamento ha sempre rappresentato il vero spartiacque: il voto decisivo per la riforma del Senato. Renzi ha dichiarato scatto matto: se ha fatto bene i suoi calcoli potrà cantare vittoria e preparare con tutta calma il ritorno alle urne. La minaccia del voto anticipato non sarà più una pistola scarica.
È per questo che, oggi, la minoranza del Pd, il Nuovo Centrodestra e l’opposizione si trovano davanti a un bivio, con il rischio concreto di imboccare in ogni caso una strada senza uscita. Proviamo a tracciare il quadro.
Se Renzi dovesse portare a casa la riforma, come detto, potrebbe cantare vittoria e iniziare a pianificare il ritorno alle urne – con la legge elettorale che si è disegnato su misura – avendo portato a termine i tre punti cardine della sua prima esperienza di governo (legge elettorale, jobs act, riforma del Senato). E se dovesse fallire? Lo scenario in quel caso sarebbe devastante: Renzi sarebbe sì “quello che ha provato a cambiare le cose”, ma sarebbe anche un premier che ha perso la partita decisiva (cosa difficile da digerire nella narrazione renziana) e che si appresta a presiedere un nuovo governo delle larghe intese. L’alternativa del diavolo è quella di vivacchiare per un paio d’anni in attesa di venire archiviato.
Ma le cose non sono più semplici per la minoranza Pd. Se anche questa volta, alla fine, si piegherà, avrà dimostrato una volta di più di essere un’opposizione interna che fa solo una grande rumore ma che non è in grado di combattere le battaglie per le quali sembra sempre pronta a tutto.
E se riuscisse invece a costringere alla resa il governo? Che cosa ne avrebbe guadagnato e come lo spiegherebbe al paese? In quanti, tra gli elettori, sono così convinti che una battaglia cavillosa come quella che sta combattendo la minoranza sia davvero importante? Come spiegherebbe all’elettorato di aver mandato in crisi il governo – mentre l’economia sembra timidamente ripartire – per una questione di “listino elettorale”? Se si voleva rompere, c’erano ragioni molto più comprensibili, molto più di sinistra, per farlo.
L’impianto complessivo della riforma del Senato – pessima o meno che sia – è stato approvato nelle sue grandi parti. La minoranza si vuole davvero impiccare sull’articolo 2? Ormai è tardi: se si voleva provare a cambiare davvero qualcosa bisognava pensarci prima. Non si può intraprendere una strada così lunga e complessa per poi mandare tutto all’aria all’ultimo. Chi lo capirebbe?
Infine, il Nuovo Centrodestra e Forza Italia se la sentono davvero di far saltare una riforma – che con tutta probabilità al loro elettorato non dispiace affatto – e di tornare al voto, certificando alle urne la loro agonia e ottenendo il risultato di prolungare ancora una volta la stagione delle larghe intese?
A questo punto, teniamoci questa pasticciata riforma del Senato e speriamo che l’Italia sia una democrazia abbastanza solida da reggere un cambio che, negli auspici, potrebbe renderla più rapida ed efficace; ma che, nei timori, potrebbe trasformarla in una democrazia autoritaria, in cui la divisione dei poteri è davvero troppo sbilanciata. Se si trattava di una frittata, ormai, è stata fatta.
Così, finalmente, potremo tornare al voto, come sarà inevitabile: con una nuova legge elettorale e un nuovo assetto istituzionale si può davvero andare avanti per due anni come se niente fosse? C’è una primavera 2016 che sembra lì apposta. In questo modo torneremo anche ad avere un premier scelto dai cittadini e, per la prima volta da non so quanto, una maggioranza chiara che può assumersi le sue responsabilità senza scaricare le colpe sugli altri se “non riesce a lavorare”.
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