«Caro Renzi, guardaci in faccia: siamo sindacalisti, non luoghi comuni»

17 Dicembre 2014

Nella sala mensa di una grande azienda di telefonia, con sede a Milano, dei giovanotti smanettano con il computer sulle gambe. Non sono in pausa, non giocano, non navigano sui social. Lavorano. Sono ingegneri che controllano il funzionamento delle reti aziendali. “Liberi professionisti” che operano per conto di società in appalto. Sono esterni e non hanno diritto ad un ufficio. Se lo vogliono devono pagare di tasca propria. «Anche questo è il mondo del lavoro oggi», spiega Paolo Puglisi, segretario milanese del comparto telefonici della Cgil (Slc). Uno che di vicende di lavoro senza regole se ne intende. «Il groviglio dei contratti tipici e atipici permette situazioni di questo genere e altre ancora più difficili e impedisce a tanti precari di farsi rappresentare dai sindacati».  Quasi impossibile parlare di lotta nei contesti dell’occupazione immateriale. Una certa rassegnazione prende l’espressione del viso di Puglisi, 58 anni, milanese di adozione e siciliano di nascita. Ad uno come lui, funzionario Cgil dal 1988, da sempre impegnato con la politica, sembra di lottare contro i mulini a vento. «È forse il momento più faticoso della storia del sindacato – racconta Puglisi – C’è una crisi di rappresentanza che ha a che fare con il sistema economico ed anche con i nostri errori. Si tratta di miopie e ritardi nel comprendere dinamiche che si sono complicate negli anni». E adesso raccapezzarsi nel dedalo dei contratti del settore è cosa da azzeccagarbugli.

«È evidente che facciamo meno fatica a farci interpreti dei lavoratori a contratto a tempo indeterminato. Ma il vero problema è rappresentare tutti, da quelli che sono a termine, a quello che lavorano a chiamata. Molti ricorrono ai sindacati quando è troppo tardi e c’è la crisi aziendale che li mette in mezzo alla strada». Una fatica confermata dalla vita quotidiana di Puglisi, e di altri come lui. Impegno e solo impegno. «Inizio presto la mattina e la sera non si sa quando si stacca. E poi ci sono i sabati ai convegni o alle manifestazioni, le riunioni serali e tutto il resto. Stare al fianco dei lavoratori è cosa seria e richiede il massimo dell’impegno». Un impegno che gli consente di portare a casa non più di 1.800 euro al mese. «Non mi importa del denaro. Mi sembra uno stipendio più che dignitoso, che mi consente di fare il mio lavoro al meglio». Niente retorica nel gergo da sindacalista. Ma molta passione. «A volte quando perdi una vertenza e un’azienda chiude e licenzia, ti chiedi ossessivamente dove hai sbagliato. Ma poi ti accorgi che le crisi sono questioni più generali e ti senti impotente. Come quella volta della chiusura di Omnia, un grosso call center. Persero il posto in 3mila, solo a Milano. Un giovane padre di famiglia sotto i miei occhi aprì il suo portafoglio e dentro non c’era niente. «Non posso più nemmeno comperare il latte a mio figlio – mi disse –. Rimasi senza parole”.

La disperazione è il fattore dominante della crisi e preoccupa tutta la Cgil. Ai sindacalisti restano i buoni propositi ma poche armi per difendere i lavoratori. «Abbiamo perso spazi nella contrattazione salariale, nell’autorità normativa e organizzativa e non riusciamo quasi più a fare i contratti», racconta Puglisi. «Di questo passo torniamo dritti negli anni ’50 e questa nuova riforma del lavoro (il Jobs act ndr) prende il problema dal verso sbagliato. Senza investimenti pubblici non ci sarà ripresa e fare di tutti i lavoratori dei precari, renderà tutti ancora più insicuri e infelici. Il lavoro non è un fattore soltanto economico. Il lavoro è un fattore di dignità».

Nel 2013 sono stati in 800mila i lavoratori delle telecomunicazioni a fare la tessera della Cgil e pochi meno a chiedere quella della Cisl. Numeri rilevanti e tuttavia insufficienti per tornare a parlare di reali contrattazioni collettive.  Si iscrivono ai sindacati soprattutto i lavoratori a tempo indeterminato, mentre i nuovi assunti a tempo determinato stanno alla larga dalle Rsu aziendali, per timore di “rappresaglie da parte dei datori”. E poi ci sono quelli del part time imposto. «Per loro – racconta Puglisi – fare la tessera del sindacato è un costo insostenibile, anche se contenuto. E quindi non la fanno. E infine ci sono gli invisibili. Quelli che hanno forme contrattuali davvero molto precarie. Questi lavoratori non nutrono aspettative nel sindacato e non si avvicinano».

Montagne di difficoltà che sembrano invalicabili. Ma c’è chi la prende bene e trova coraggio. «Ho scritto una lettera al premier Renzi, per spiegargli cosa significa fare il sindacalista oggi». Un lavoro “meraviglioso” secondo Giuseppe Mansolillo, segretario dei metalmeccanici Fim-Cisl di Milano. «E che merita rispetto. Non si possono liquidare le parti sociali in pochi minuti, perché dietro i sindacalisti c’è gente in carne ed ossa, diritti autentici da difendere». E sono due milioni e trecentomila i lavoratori attivi iscritti della Cisl. Poco meno dei lavoratori attivi iscritti alla Cgil, che complessivamente arriva a cinque milioni e settecentomila iscritti, ma solo grazie ai pensionati dello Spi, che sono quasi tre milioni.

«Il nostro è un lavoro che non cambierei con nessun altro. Per me è un onore difendere i metalmeccanici. La mattina mi sveglio volentieri e corro tutto il giorno per una causa che mi appassiona e che entra nelle vite reali delle persone». Mansolillo, 56 anni, originario delle Basilicata ma a Milano fin da giovanissimo, muove rapido le mani mentre ragiona e gli occhietti azzurri sembrano anticipare i pensieri. «Per uno come me, con la licenza media, destinato a fare il contadino, rappresentare i metalmeccanici dopo aver lavorato per tanti anni in fabbrica, è un traguardo incredibile. Ringrazio la Cisl che mi ha dato gli strumenti di lavoro, che sono: cultura politica, capacità di confronto, senso della solidarietà». A Mansolillo gli operai lo chiamano soltanto Giuseppe. A quelli in lotta, nei presìdi, si dedica a tempo pieno. Viaggia in scooter per la provincia di Milano, da una fabbrica ad un’altra, e non si sottrae a nessun imprevisto. «Quando c’è una vertenza non ci sono orari. La mia famiglia ne è consapevole ed è con me, nonostante le difficoltà. E poi gli operai hanno anche bisogno, molto spesso, di conforto morale, oltre che di una lucida strategia di lotta». E Mansolillo è un lottatore che non molla un metro ai “padroni”. «Si combatte per il bene dei lavoratori ma senza mai mancare di rispetto a nessuno». La controparte? «A volte si trovano soluzioni con gli imprenditori e si rimettono in moto aziende che sembravano sull’orlo del fallimento. È una questione di buon senso».

Ma a volte, come spesso capita di questi tempi le cose vanno male. «Ricordo con  dolore la vicenda della Metalli Preziosi di Paderno Dugnano, nel milanese. Notti e giorni di presidio. Ma alla fine c’è stata una valanga di licenziamenti per una crisi che ha avuto risvolti penali, per il malaffare certificato che ha coinvolto i vertici aziendali. Quella volta per aiutare i lavoratori, abbiamo allestito uno spettacolo teatrale con molti comici di Zelig. In quel momento ho compreso il valore autentico della solidarietà». Che non basta quando la crisi investe interi comparti industriali. «Stiamo perdendo ogni giorno occupazione e pezzi di produzione rilevanti – sottolinea Mansolillo –. E il governo pensa di salvare l’Italia punendo i lavoratori. Renzi prende il problema dalla parte sbagliata. Anche con i sindacati, che sono una risorsa e che hanno i piedi ben piantati nella realtà». Ma non si molla. «C’è speranza per ripartire». Una speranza stampata sul suo volto sorridente. Ogni mese porta a casa 1.730 euro netti. Senza altri benefici. «La mia famiglia è contenta di quello che faccio e questo mi gratifica», spiega mentre beve un sorso d’acqua. «E poi in Cisl sono libero. Nessuno mi dice ciò che devo fare. Io rispetto i nostri principi e tutto va bene. E quando c’è da lottare si lotta. E non mi tiro indietro. Spesso abbiamo bloccato le strade, chiedendo scusa agli automobilisti. Una volta, ad una protesta, eravamo talmente in pochi che per bloccare il traffico e farci sentire, passavamo sulle strisce pedonali a turno ad un grande incrocio di Milano, paralizzando tutto. Sono cose che non ci piace fare. Ma spesso non ci sono altre soluzioni per accendere i riflettori sui lavoratori in difficoltà».

Difficoltà di ogni giorno, sempre più ingombranti. E c’è anche chi, nel sindacato, le affronta in modo diverso. Senza presidi o lotte in mezzo alla strada, ma dietro una scrivania. Simone Lauria ha 40 anni e dirige il patronato Inca della Cgil di Milano. Dopo la laurea in scienze politiche è subito entrato nella Nidil, ad occuparsi dei lavoratori con i contratti atipici. Poi dal 2007 è la previdenza l’interesse più grande. «Trattiamo problemi legati alle pensioni, ai contributi di persone reali». Lauria ha poco tempo per le riflessioni politiche. È quel tipo di sindacalista della nuova generazione: poca ideologia e molta pratica. «Intendiamoci, è per me un valore aggiunto stare con la Cgil e non cambierei il mio lavoro con nessun altro, nemmeno se mi pagassero il triplo». E di possibilità di traghettare nel settore privato a Lauria non mancano, ma le motivazioni per restare ci sono tutte. «Dirigo un dipartimento di 36 persone, con molte responsabilità, che spesso mi tolgono il sonno. Guadagno 1.830 euro al mese e mi bastano. E poi in Cgil abbiamo costruito relazioni umani importanti e un bel gruppo di colleghi».
Relazioni umane a cui è difficile rinunciare anche per un funzionario di alto livello. «Da direttore mi occupare meno dei casi delle persone che vengono a chiedere una consulenza. Ma è proprio lì che si misura un bravo sindacalista, nella capacità di mediare, di ascoltare, di trovare una soluzione ai problemi di persone. Di frenare l’esasperazione spesso violenta di alcuni cittadini. Ho bisogno di svolgere anche quella parte di lavoro che comprende la difesa di un interesse. Significa essere consulente di parte. E in Italia, con una pubblica amministrazione poco efficiente, il lavoro dei patronati è essenziale e spesso supplisce alla mancanze della macchina statale».

Sarà anche per questi motivi che la domanda di aiuto è in crescita ovunque. Più di 60mila le istanze presentate al patronato Cgil di Milano nel 2013. Per tutti c’è una risposta, senza discriminazioni o chiusure. «È un nostro dovere – sorride Lauria – anche se molto del lavoro che ci viene richiesto potrebbe essere svolto dall’Inps». Non va tutto bene, nemmeno nel sindacato. «Dobbiamo modernizzare il Paese, e anche il sindacato deve porsi nuovi obiettivi. Ma prima di tutto è il governo che deve capire quali sono le priorità. È in atto un taglio di fondi ai patronati. Una misura che danneggia prima di tutto i cittadini e chi cerca di aiutarli». Nessun vittimismo ma soltanto una speranza: «Sistemare la pubblica amministrazione è un dovere, così come aprire una nuova stagione di investimenti. Il problema dell’Italia non sono i lavoratori ma la mancanza di lavoro».

(Foto di copertina di Steve Best, tratta da Flickr)

 

TAG: Cgil, cisl, Matteo Renzi, sindacati, uil
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