Banche popolari: il blitz di Renzi, il governo diviso e tanti punti oscuri

21 Gennaio 2015

Una specie di piccolo concentrato, quasi un manuale di “azione renziana per le cose importanti”. Le conseguenze  del decreto legge con cui, animato da improvvisa fretta, il Consiglio dei Ministri ha riformato d’imperio le banche popolari dopo decenni di incaglio su un tema annoso, sono varie e su Gli Stati Generali sono state analizzate e criticate.

Ma al di là del merito, ci sono alcune osservazioni di metodo molto interessanti, che vale la pena di ricostruire, sia sulla base di alcuni dati di evidenza pubblica sia partendo da elementi di ricostruzione forniti da chi ha seguito la vicenda da molto vicino. Due giorni fa, sul Corriere della Sera, veniva certificato in maniera netta che la volontà di imprimere quest’accelerazione alla riforma delle popolari fosse riconducibile a Matteo Renzi in persona. In un retroscena firmato da Antonello Baccaro, infatti, si spiegava che proprio il premier aveva fatto inserire i due commi sulle banche popolari – trasformate ex lege in Spa – che passavano dal decreto concorrenza a quello, calendarizzato per il Consiglio dei Ministri di ieri, denominato “Investment Compact”.

Nessuna smentita anzi, nelle ore seguenti, la rivendicazione di una rivoluzione lungamente attesa, dato che decine di disegni di legge, sul tema, giacciono negli archivi delle ultime legislature e non hanno mai visto la luce. Difficilmente si sarebbe potuti intervenire su una materia così sensibili ai veti di tanti – deve aver pensato Renzi, affiancato da Piercarlo Padoan – senza passare per un colpo di mano. Interessante, tuttavia, è quel che succede dopo, proprio in consiglio dei ministri. “Uno dei rari casi in cui, su un tema cruciale, in consiglio dei ministri si sia aperta una discussione vera, invece del solito bulgaro unanimismo”, ragiona un parlamentare della maggioranza Pd. In Consiglio dei ministri, infatti, si è consumata una spaccatura e il fronte dei contrari, dei perplessi, di quanti chiedevano almeno di stralciare dal Decreto quel che nel decreto non c’era fino a poche ore prima era nutrito e “pesante”.

Al di là delle scontate adesioni alla fronda di ministri legati apertamente al mondo cooperativo – Giuliano Poletti e Maurizio Lupi – ad esprimere pareri critici sono stati anche Maurizo Martina, Angelino Alfano e Andrea Orlando.  Insomma: Interni, Giustizia, Lavoro, Infrastrutture e Agricoltura. Per di più, tutti ministri politici o, nel caso di Poletti, espressioni di aree politiche e di interessi economici chiari e solidi. Renzi ha preso atto del dissenso e lo ha governato con grande apertura dialettica: “Non torneremo indietro, se il vostro dissenso non è sanabile, vi prego di trarne presto le conseguenze”. E la storia, dal punto di vista legislativo, è finita lì, con l’approvazione del decreto.

Una storia che però, politicamente, non finisce, anche in ragione delle considerazioni che impone. La prima: qual è il criterio di urgenza che avrebbe imposto la decretazione? È vero, il veto e i blocchi su una questione che toccava interessi territoriali e politici così stratificati sarebbero stati tanti. Ma questo, egualmente, non spiega l’urgenza, tanto più che il tempo finestra che la legge dà alle popolari per trasformarsi è di 18 mesi. Non la spiegherebbe quantomeno, se ci fosse in carica un Presidente della Repubblica pienamente incaricato e non, ad esempio, un Presidente del Senato facente funzioni e pur sempre candidabile al Quirinale, come Piero Grasso. Vuoi vedere che l’urgenza (non proprio) costituzionale, era quella di sfruttare un tempo finestra irripetibile, con una presidenza della Repubblica dimezzata?

Altre considerazioni, non di minor conto. Chi ha aiutato Matteo Renzi nella stesura delle norme in questione, chi lo ha consigliato di accelerare in questo modo, dato che il premier, notoriamente, non è fluente in economia e finanza, pur potendo contare sui suggerimenti di qualche amico competente nella city di Londra, e sui continui “consigli” che arrivano dalle istituzioni europee? Forse contava l’imminenza del vertice di Davos, a cospetto del quale, oggi, ha potuto presentare lo scalpo delle popolari diventato improvvisamente contendibili, appetibili e conquistabili? Potrebbe non essere una coincidenza, dato che, in assenza di avversari politici interni solidi e robusti quanto basta, i mitologici “mercati” – a fronte di un debito pubblico che continua a crescere e di un’economia che invece purtroppo non riparte – sono l’unico vero possibile avversario del governo, e sicuramente quello che può aprire la strada ad un eventuale commissariamento.

Infine, alla Consob di Giuseppe Vegas non interessa  proprio accendere un “faro”, come si diceva una volta, sui movimenti dei titoli delle popolari in questioni, non solo con riferimento ai giorni in cui i titoli sono esplosi, ma prestando attenzione anche a quanto si è comprato nei giorni precedenti?

TAG: andrea orlando, angelino alfano, antonella baccaro, consob, giuliano poletti, giuseppe vegas, Matteo Renzi, maurizio lupi, maurizio martina, piercarlo padoan
CAT: Governo, Legislazione

2 Commenti

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  1. marcogiov 9 anni fa

    Non capisco come si possa difendere la governance delle popolari, con i risultati disastrosi che hanno ottenuto e con l’impossibilità di raccogliere capitale sui mercati, se si offre a chi investe un solo voto anche se impegna decine di milioni. Il voto capitario se ne va come i patti di sindacato e i salotti buoni, perché sono finiti i soldi. Evviva, non tutto il male viene per nuocere.

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    1. jacopo 9 anni fa

      Caro Marco Giovanniello, qui non si è difeso nulla, solo raccontato come è nato il decreto. Non è un dato irrilevante

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