L’Italia post voto ai tempi del Covid
Il turno elettorale di fine settembre, che ha riguardato un referendum costituzionale, sette regioni e vari comuni capoluogo in giro per l’Italia ci ha restituito tutti i partiti soddisfatti proclamatisi vincitori ma nessuno realmente in piena salute.
Le prime elezioni dopo il Covid-19 non potevano non essere pesantemente condizionate dai mesi di epidemia e dal cruciale ruolo nel combatterla di cui sono stati investiti i presidenti di regione presentatisi nuovamente di fronte agli elettori in questo weekend di fine estate, a cui ha naturalmente fatto seguito una notevole esposizione mediatica. Proprio alcuni di questi “governatori” (si perdoni il termine improprio) sono stati i veri protagonisti della tenzone elettorale, assurgendo a rappresentare la garanzia di sicurezza e protezione per i propri cittadini in mesi in cui la gestione dei diversi sistemi sanitari regionali e la risposta alla pandemia sono stati i primi argomenti di dibattito nel nostro paese. Zaia, Toti, De Luca ed Emiliano, hanno saputo mostrare agli elettori di volta in volta, pur con diversa gradazione di merito, la necessaria durezza nell’imporre misure di lockdown e controlli ai luoghi di transito, insieme ad una buona dose di verve polemica nei confronti del governo centrale a difesa della specificità del loro territorio, oltre che della propria immagine personale. I trionfi o le nette vittorie laddove, come nel caso di Emiliano in Puglia, era lecito dubitare, sono state la logica conseguenza.
Pur tuttavia, nonostante la personalizzazione spinta che ha fatto parlare di “presidenzialismo regionale”, non si può fare a meno di valutare lo scenario nazionale in un momento in cui il governo Conte, già debole per carenza di iniziativa e minato dai soliti dissidi tra alleati, poteva essere ulteriormente delegittimato se non travolto da una temuta valanga di voti per il centro-destra deciso più che mai a dimostrare la propria egemonia su tutta la penisola, rossa Toscana compresa. Non è andata come Salvini e soci speravano. Il Pd e il centro-sinistra hanno resistito con inatteso vigore e conservano, oltre alla scontata Campania, anche la Puglia e la Toscana. Soprattutto la netta vittoria dell’ingiustamente sottovalutato Eugenio Giani a Firenze, in una regione in cui i sondaggi paventavano un testa a testa da thrilling, ha sembrato incoronare il segretario Nicola Zingaretti come il principale vincitore della contesa. Tornando con i piedi per terra appare chiaro come aver mantenuto il colore rosso nella regione che fu di Dante sia in realtà uno scampato pericolo, accompagnato peraltro da pesanti sconfitte in Veneto, Marche e soprattutto nel disastroso esperimento di alleanza con il M5S in Liguria, ma coi tempi che corrono è festa grande. Anche perché il “rivale” Matteo Renzi non sembra riuscire a raccogliere voti sufficienti a mantenersi rilevante. Pur con un consenso molto variabile da regione a regione, che ha portato buoni o accettabili risultati in Campania e Toscana, e nella consapevolezza che le elezioni nazionali sono altra cosa, le sconfitte registrate in Liguria, Puglia e Veneto sono cocenti. La creazione di un blocco liberaldemocratico di centro, prevedibilmente insieme ad Azione di Carlo Calenda e a Più Europa, non sarà semplice.
La spallata sovranista non è dunque riuscita e, invece del 6-0 auspicato da Salvini, è saltato fuori dalle urne un deludente 3-3. Insieme ai trionfi di Veneto e Liguria è arrivata comunque la conquista delle Marche da parte di Francesco Acquaroli di Fratelli d’Italia, dopo venticinque anni di governo del centro-sinistra, oltre alla maggioranza relativa della Lega nel consiglio regionale della Val d’Aosta. Il centro-destra governa pertanto oggi in quindici regioni su venti, oltre ad aver reso contendibili le due regioni rosse per eccellenza, Emilia-Romagna e Toscana, segno di predominanza nello scenario elettorale italiano e di grande capacità di presentarsi unito alle elezioni. Eppure gli scricchiolii nell’alleanza si sentono. Il costante progresso del partito di Giorgia Meloni incalza sempre più la Lega in calo di consensi e Matteo Salvini conferma il proprio nervosismo dando il via alle polemiche post voto con gli alleati. L’ex ministro dell’interno, già in difficoltà tra i suoi per l’ormai straripante potere e consenso di Zaia in Veneto (ma difficilmente contesterà la leadership nazionale al “capitano”, nonostante i desiderata di molti), manifesta una volta di più la difficoltà di impersonare il ruolo di regista capace di unire e consolidare la coalizione (il rendersi “concavo e convesso” di Berlusconiana memoria), come gli ha del resto fatto notare il fresco vincitore in Liguria Giovanni Toti. Quanto ai moderati, a parte il successo personale del governatore ligure che si candida a raccogliere l’eredità di Berlusconi, si brancola nel buio tra i resti di una Forza Italia sempre più ridotta all’ombra di quel che fu.
E il primo partito in parlamento? Quella macchina da guerra che solo due anni fa otteneva i suffragi di un terzo dell’elettorato oggi ha evaporato il proprio consenso. Il Movimento Cinque Stelle barcolla tra il 3% (!) del Veneto e l’11% della Puglia, dona il sangue un pò a tutti i competitors e, dilaniato dalle lotte fratricide dei suoi “ragazzi” diventati “colonnelli”, vive oggi il momento più difficile della sua breve storia, stretto tra il bisogno di pragmatismo di governo e la necessità di ritrovare quella “base” che lo ha ormai in gran parte abbandonato. Non è sufficiente la vittoria del SI al referendum costituzionale che ha sancito il taglio dei parlamentari, battaglia storica del movimento fondato da Beppe Grillo, a nascondere il caos esistente nelle sue file. Sembrerebbe venuta l’ora di decidere cosa fare da grandi, ma per farlo Di Maio e soci dovranno probabilmente una volta per tutte definire quella cosa chiamata identità, che a tredici anni di distanza dal primo “Vaffa day” ancora manca.
La politica italiana si avvia dunque ad affrontare un autunno e un inverno che si preannunciano pesanti, tra probabile seconda ondata pandemica e crisi economica, con la grande sfida presentata dalla gestione del Recovery Fund. Conte sarà chiamato a tal prova con i due principali alleati di governo in condizione opposta, tanto rafforzato uno quanto indebolito l’altro. Lo scorso anno fu proprio una tale situazione ad accendere le polveri tra gli allora partners Lega e M5S, con gli esiti che conosciamo. Zingaretti ha già messo in chiaro che si deve cambiare musica, a cominciare da MES sanitario, revisione decreti sicurezza e legge elettorale proporzionale, ma i cinque stelle, proprio perché in preda a grave crisi, difficilmente potranno accettare dolorose concessioni che li metterebbero in difficoltà col proprio elettorato. La volontà di arrivare almeno al 2022 è ben presente in tutti i soci di governo, ma nella politica italiana nulla è mai scontato. Non ci potrà certo distrarre.
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