Lo smart working e noi meridionali

23 Giugno 2020

In un paese fondato sul cartellino e sul (di solito imbevibile) caffè alla macchinetta dell’ufficio, il dibattito sullo smart working non poteva che degenerare in un confronto su “effetto grotta” e conseguenti balle di fieno che rotolano nelle vie cittadine modalità film western. La questione è invece molto più seria. Perché il lavoro smart, agile o da remoto (fate voi) ha una potenzialità che in pochissimi finora hanno rimarcato con forza: è proprio questa modalità lavorativa che potrebbe permettere a noi meridionali di far ripartire il Sud, quindi tutto il paese. Andiamo a vedere il perché.

Rientrare nello status di “cittadina/o del Meridione” non significa vivere a sud di Firenze, di Roma o di Napoli. Come sappiamo benissimo, la linea che divide il Nord dal Sud Italia non è geografica, è socio-economica. Soprattutto, non è fissa, è in continuo movimento. Non si nasce al Sud. Lo si realizza tra i 14 e i 18 anni, quando ogni ragazza o ragazzo siciliano, pugliese, campano, oramai ad esempio anche umbro, comprende di essere nato in un territorio di emigrazione. Dal quale a 18-19 anni si partirà, senza più ritornare. Ci sono delle eccezioni, ovviamente. Ci sono schiere di “eroi” che scelgono di rimanere, armati unicamente del loro talento, spirito d’inventiva e tanta pazienza. Ma sono appunto delle eccezioni eroiche, non la regola. Quindi l’indicatore di una patologia.

E dove va oggi chi parte dal Meridione? Fermandoci all’Italia, si trasferisce e poi si ferma principalmente a Milano e Bologna. Non a caso i due cuori pulsanti del progressismo italiano. Non per merito unicamente dei bolognesi e dei milanesi, degli emiliano-romagnoli e dei lombardi. Ma anche delle menti più brillanti sfornate in Basilicata, Calabria, Abruzzo, etc., che contaminano questi territori con il loro talento, creando quelle oasi di sperimentazione e innovazione che sono oggi due città come Bologna e Milano.

Eccolo il modello Italia all’alba della terza decade del XXI secolo: due-tre città –neanche più intere regioni– di super eccellenza affamate di talenti, che attirano e trattengono le migliori menti di tutto il paese –provenienti principalmente dal Sud– a discapito dei territori impoveriti da questo drenaggio di capitale umano. Nulla di nuovo, insomma. La storia del paese dal dopoguerra in poi è una storia di travaso di talenti dal Sud al Nord del paese. Con l’aggravante che questo trend ha subito una fortissima accelerazione con gli effetti della crisi economica del 2007-2009. Insomma, c’è molto più Sud socio-economico nel paese oggi, come dimostra la “meridionalizzazione” di interi territorio nel Lazio o in Umbria, sebbene con le dovute differenze.

Si vuole invertire la rotta? Come sappiamo benissimo, c’è un unico rimedio per far sì che questo avvenga: lasciare i talenti sfornati dal Meridione nel Meridione. Spingere anche i lombardi, gli emiliani o i veneti a trasferirsi in Puglia, Sardegna o Sicilia, non solo unicamente il viceversa. Diluire i talenti in tutti il paese, non concentrarli in due-tre città. Creare occasioni di contaminazione tra i territori, sì, ma con migrazioni non in un’unica direzione, in entrambe. Come? Anche grazie allo smart working. L’unico modo per permettere oggi a un/a giovane meridionale di lavorare vivendo nel territorio dove è nata/o e cresciuta/o, attivando così tutti quei processi economici, sociali e politici grazie ai quali trasformare poi nel prossimo futuro tutto il Meridione in una nuova Milano o Bologna.

Perché un talento che rimane è un talento che farà volontariato nelle periferie dove è nato e cresciuto, migliorando la vita sociale della propria città. Che farà politica in un partito, migliorando la qualità della classe dirigente del proprio territorio. Che aprirà un’azienda grazie alla quale creare lavoro dove oggi non c’è. Che si unirà così agli “eroi” che hanno scelto di rimanere, supportandoli in ogni tipo di azione sociale, politica ed economica sul territorio. Che si confronterà con altri talenti che avranno il loro ufficio in futuri spazi di co-working creati ad hoc, e dove far lavorare insieme ingegneri, architetti, sociologi, filosofi, grafici e mille altre professionalità, creando così quelle contaminazioni inter-disciplinari di cui tanto si parla, ma che nei fatti non si realizzano mai.

Insomma, non vorrei che questo tanto (da alcuni) vituperato smart working sia proprio uno degli strumenti e delle molle attraverso le quali risolvere anche (per non parlare appunto di tutti i benefici in termini ambientali e sociali) la “questione meridionale” italiana. Lucani, pugliesi, siciliani, abruzzesi o sardi che lavorano da Potenza, Taranto, Siracusa, Pescara o Sassari, andando poi nei loro uffici emiliani, lombardi, veneti e piemontesi solo quando strettamente necessario, non tutti i giorni. Stimolando così ancora di più la creazione di varie infrastrutture, soprattutto ferroviarie, vedi un’alta velocità che colleghi in poche ore non solo Firenze, Bologna, Milano, Torino, Venezia e poco altro, ma tutto il territorio. Altro che grotta inospitale. Forse lo smart working è oggi uno dei principali strumenti per fare in modo che il (vecchio e nuovo) Meridione non sia più un luogo dal quale partire, ma il cuore pulsante di una nuova primavera italiana.

TAG: Questione meridionale, smart working
CAT: Governo, Partiti e politici

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