Una democrazia frustrata: di chi la colpa?
Sempre più commentatori seguitano a indicare una classe di politici persa, una generazione di inetti. Questa non è in grado di fronteggiare una crisi ormai nella sua piena maturità e che non mostra semplici avvisaglie, ma nodi gordiani irrisolvibili neppure a fil di spada o tantomeno di penna.
In un regime democratico, che presupporrebbe una buona dialettica per alimentare il proprio funzionamento, la prima a farsi notare è la carenza di una sinistra economica. Ma come dicevamo il problema non è solo l’assenza di una parte, ma è anche la presenza, nella restante, di personaggi accusati di essere incongrui con la loro posizione di potere. In effetti, quel che rimane son pensieri economici destrorsi che nemmeno tra loro si conciliano perché il rapporto con l’elettorato non lo permette, e dunque la difficoltà diventa proprio far accettare alle persone un accordo che alla fine se si trova è per calcoli sui risultati elettorali futuri, come fossero un’indagine di mercato. È proprio questo il fattore chiave per capire la crisi politica. Il rapporto tra l’eletto e l’elettore. In una forma rappresentativa come la nostra il politico è chiamato al volere del cittadino per dovere costituzionale e alla popolazione spetta la scelta del suo rappresentate per dovere civile. Ma il rapporto tra volontà e scelta è irrimediabilmente corrotto e da questo deriva la scarsa qualità dei politici e delle scelte politiche, e così una crisi democratica che non è da imputare alla democrazia stessa ma unicamente alla forma con la quale essa è messa in atto. Mi spiego.
Se la volontà è il buon governo, il politico ha in mente una risoluzione da attuare per adempiervi, ma ciò deve accordarsi con l’idea del popolo. Un popolo che per forza di definizione è formato tutt’altro che da politici: artigiani, operai, medici, insegnati, imprenditori, etc. A sua volta però il politico non deve solo avere la conoscenza, o supposta tale, se no rimarrebbe confinato al ruolo di teorico o di commentatore. Egli per poter agire deve essere investito dai poteri e questi poteri glieli attribuisce la popolazione. Quindi come fa chi vuole perseguire il buon governo a fidarsi di richieste della cittadinanza che è, giustamente, in maggioranza inesperta nel campo politico?
Attenzione perché da qua a dedurre che la democrazia sia una forma inefficiente di governo il passo è breve. La chiave per non farsi ingannare è la modalità con cui lo statista acquisisce consenso. Se tutta la classe politica per ogni interpretazione dei problemi proponesse valide soluzioni, la decisione popolare non potrebbe ridursi a questioni scadenti e sarebbe obbligata pur sempre ad una scelta di opinione, però sfumata tra risoluzioni in teoria equivalentemente valide. Come un dietologo che lascia libertà tra carne o pesce, o tra melanzane e zucchine, in entrambi i casi le possibilità offerte sono coerenti con un apporto nutrizionale necessario allo scopo, e la scelta lasciata al paziente sarà questione di ideologia o gusto o interesse personale. Il problema giunge quando arriva in città un dietologo che promette una dieta equilibrata e salutare a base di patatine fritte e Sachertorte. L’appetitosa proposta, per quanto falsa, stuzzica la pancia della cittadinanza a preferirlo a una più ferrea scelta e così il dietologo arricchisce la sua platea di clienti e spinge anche altri specialisti, per poter lavorare, ad adeguarsi alla nuova teoria e suggerire hamburger a colazione (una proposta ragionata magari in una tranquillità caraibica sovvenzionata da qualche azienda McBurger’s). Questo è il meccanismo demagogico: doversi abbassare alle richieste più gustose per la popolazione per così governare e legiferare. E non si può certo sollevare il coperchio della portata e rivelare dei cavoletti di Bruxelles quando la promessa era tutt’altra, perché certo le legislature durano cinque anni ma imbrogliare il popolo non è mai cosa buona per chi punta a governare. O almeno non lo è palesemente.
Il problema non è sottomettersi all’intoccabile espressione popolare per quanto sia sciocca. È la pillola amara nascosta all’interno del manicaretto. Più il popolo è ingannato con promesse di facciata che corrispondono al suo volere digiuno di politica, più si può agire alle sue spalle e avallare riforme o leggi che se ben spiegate e correttamente argomentate mai avrebbero suscitato approvazione. È questo il rischio più elevato della demagogia: sovvertire l’interesse della cittadinanza benché instaurati al potere da proposte che si confanno a ciò che essa, ignara, vuole. Il politico è scarso perché è scarsa la richiesta del popolo e invece di elevarla o istruirla con difficili discorsi, avviene la svendita delle idee al discount populista. Una politica commerciale e popolare, ma nel senso di pop. Uniformata al ribasso e di facile consumo, come la zuppa Campbell: l’omogeneità della mediocrità. Vende ciò che è facile e più è facile consumarlo più vende; lo stesso Berlusconi ha costruito un impero televisivo e politico e anche propagandistico a riguardo. La vita è un consumo edonico e questo non-pensiero si adagia su una cultura professionalizzata e non in grado di aggiungere la complessità della ragione all’immediatezza dei sensi.
Si inganna il popolo con proposte semplici nella forma e nel frattempo se ne promulgano altre non soggette al crivello elettorale, facendo così perdere senso alla democrazia in quanto cessa la sua funzione più importante. La quale non è convertire in potere una “libera espressione” inutile nella ricerca della corretta soluzione, in quanto non esperta nel campo, ma facile da accalappiare e anche per questo elevata alla sacralità. Il motivo per cui arranchiamo è proprio perché siamo privati di quella che è la forza della democrazia, cioè il controllo primo e ultimo del potere da parte dei cittadini. Un potere che ormai non è in mano alla competenza ma alla vendibilità.
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