Le piogge d’autunno stanno spegnendo anche i cori più accesi ed entusiasti. I timidi segnali di ripresa dell’export a settembre non bastano a mettere in moto l’ottimismo in un paese con la pancia sempre meno piena e, soprattutto, con la paura di averla presto davvero vuota. Le lune di miele più durature, del resto, finiscono in politica come nella vita: e meno male, dopotutto, perché è lì che si vede di che materia son fatti i sogni, quante gambe hanno per diventare realtà.
I nuovi dati sul consenso politico raccolti da Ilvo Diamanti e pubblicati ieri da Repubblica rendono esplicito un malessere che va diffondendosi, la fatica a tenere viva la speranza nel corpaccione di un paese depresso. Il premier, dice la ricerca, perde consenso e così, ovviamente, il suo partito. Anzi, il partito suo, dato la continua sovrapposizione mediatica tra pd e premier-segretario. Indissolubilmente legati, come mai prima, anche per la forte uscita di elettorato militante storico e per la brusca (e necessaria) rottura del legame storico tra il partito e i sindacati di riferimento.
Insomma, le cause convergenti sono tante, stanno dentro alla politica e stanno nella società e nell’economia italiana, ma i fatti restano quelli: il divario tra il centrosinistra renziano e il centro destra di Berlusconi, Salvini, Meloni, eccetera, va riducendosi drasticamente. Il premier-segretario conserva un vantaggio sensibile, di immagine e di posizione, ma anche per lui non esistono più pasti gratis. Anche perché, riguardando ancora una volta i numeri delle scorse elezioni europei, non si può mancare di guardare a un dato di fatto: il pd renziano, al 41%, coi suoi 10 milioni e rotti di voti, è comunque rimasto lontano, in termini assoluti, dai voti presi dal Pd al suo esordio (perdente) nell’era della candidatura a premier di Walter Veltroni. Ciò vuol dire, in fondo, che, con un più alto livello di affluenza, come è naturale in vista di elezioni politiche, la partita seguirebbe altre regole, altre proporzioni.
La fotografia di questi tempi, peraltro, restituisce un quadro in cui emergono attori nuovi per il prossimo futuro, e qualche conferma. Matteo Salvini, sicuramente, a farsi rappresentante della destra popolare/popolana che dice cose “scorrette” e si spinge su un terreno troppo lontano, rischioso e scorretto per essere sminato da altri. Un manuale di storia qualsiasi dice che i tempi di carestia sono tempi buoni per questi linguaggi. Ancora, il Movimento Cinque Stelle, ridimensionato dall’onda di piena renziana delle scorse europee, non è però destinato a scomparire. Dopo mesi sottocoperta, un italiano su cinque è ancora disposto ad accordare fiducia, e quello di Grillo resta il primo partito tra gli operai, secondo Ipsos. Insomma, quel che esiste in natura – rabbia, macontento, “no al sistema a prescindere” – continuerà ad esistere in politica.
In questo contesto, i vuoti continuano a pesare e a far spavento. Sono quelli di una generazione non rappresentata dalla politica, non intercettata dal sindacato, non calcolata da nessuno. E che però, o lavora con contratti instabili e paga fior di tasse, o vorrebbe farlo e davvero non trova lavoro di alcun tipo. Milioni di italiani sostanzialmente senza voce, con molti titoli di studio: un serbatoio decisivo per il motore del paese di domani, se un domani il paese vuole avercelo. Occuparsene, per Renzi, non è solo una questione di giustizia politica, ma di opportunità e interesse partitico. La rendita costruita in questi anni di esplosione, e la debolezza degli avversari, domani, potrebbero non bastare. Pasti gratis non ce ne sono più per nessuno: Renzi sembra dirlo spesso, da oggi sappia che è vero anche per lui.
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