Ad onor dei nostri medici

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12 Aprile 2020

Sono in prima linea e rischiano il contagio, con la paura dentro di non poter vedere il domani.
Sentono i rantoli ed i respiri di quei malati che curano con un’abnegazione intensa, sapendo che non possono farcela.
Sono capaci di dare benevolmente gli ultimi conforti per quei degenti che non potranno vedere i propri familiari, stringere loro le mani, accarezzare i volti.
Hanno il duro compito e la mala ventura di riferire delle morti e dei decessi che il virus implacabilmente semina giorno per giorno.
Non conoscono limiti di orario, non si accorgono di quando inizi e finisca il giorno, corrono per corridoi, tra sale di terapie intensive e, freneticamente, si agitano tra letti, che alla rinfusa occupano ogni spazio dei nostri mal ridotti ospedali. Si confrontano nel quotidiano con la malattia e la morte, hanno carichi di lavoro senza precedenti che rischiano di lasciare segni profondi.
Devono sentirsi anche le critiche e le dure rampogne di deficienze croniche della nostra sanità, senza che abbiano colpa alcuna.
Avvertono inesorabilmente ogni giorno che la Sanità pubblica sia un colabrodo, che lo Stato non avrebbe dovuto, negli anni passati, essere sparagnino con i necessari e doverosi investimenti, come invece è tristemente accaduto.
Sono sottopagati per quello che fanno, ma l’amore per la professione muove le loro candide coscienze e affrontano ogni elevato ed estremo pericolo, anche quello di poter morire, purché diano i preziosi servigi ai ricoverati, che agognano di vederli per sentirsi sicuri.
Hanno giurato nel ricordo di Ippocrate di non recar danno ed offesa agli ammalati, ma di assisterli con devozione e premura per condurli alla guarigione, ben consapevoli che il terribile virus può irrimediabilmente frustrare ogni sforzo e tentativo profuso.
Rispettano la dignità del malato, la sua persona ed elargiscono totale solidarietà e concreto aiuto, per la difesa della vita di ognuno di essi.
Hanno la percezione chiara e nitida di cosa possa significare soccorso, perché l’insegnamento sotteso alla loro professione induce alla protezione; il loro lavoro è governato dal presidio della carità, che muove i passi quotidiani, nell’inferno della lotta contro l’epidemia perdurante ed endemica.
I loro volti sono segnati dalla estrema e diffusa stanchezza, gli occhi appassiti desiderano un confortevole sonno che possa ristorare membra abbattute da un lavorio, che non conosce sosta o indugio.
Assaporano prima di tutti le gioie, quando salvano vite, fanno sorridere malati che sono usciti indenni da agonie sfibranti. Conoscono le grammatiche della vita, quelle curve e quelle prudenti. Sanno conferire sollievo ad una mozione di affetti, comprendono l’ordito della sofferenza quando è al davanzale del baratro, perché la dissimulazione degli addii da questo mondo la percepiscono prima di tutti. Ed è un triste primato che si vorrebbero risparmiare.
Hanno visto troppe bare scendere nelle sale mortuarie, senza conforti religiosi e familiari. Nell’attimo dello sgombero finale stanno lì e Dio sta in silenzio, senza concedere privilegio alcuno. La vita, in questi frangenti, non lascia alcun relitto, solo buio e contagio.
Sono questi i nostri medici, eroi del nostro tempo, cui dobbiamo plauso ed onori, perché sono lì nelle trincee degli ospedali, a combattere contro il nemico oscuro, un virus letale che ha cambiato significativamente la nostra vita,rivoluzionato considerevolmente le nostre stantie abitudini.
Che Iddio li protegga e rischiari loro la mente nella ricerca del benefico vaccino, che abbatta il devastante flagello.
Ricordiamoci di loro e rispettiamoli per la misericordia degli imperituri sforzi.
Hanno la passione dichiarata sul volto per affrontare il dolore del mondo.
La preghiera si invochi per loro, che ci siano e non abbandonino i nostri poveri e soli malati.

TAG: coronavirus, medicina, sanità
CAT: Governo, Sanità

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