“Anarchici, mafiosi, lunatici”: quando gli invasori e i sottopagati eravamo noi

7 Settembre 2015

Lo scorso aprile Gianni Morandi ha pubblicato una foto su Facebook (dove è attivissimo con quasi due milioni di like e post quotidiani) che proponeva un confronto tra gli immigrati di oggi e l’emigrazione italiana del secolo scorso. Era accompagnata da un messaggio semplice, quasi banale e venato di populismo, diceva più o meno “a proposito di migranti ed emigranti, non dobbiamo mai dimenticare che migliaia e migliaia di italiani, nel secolo scorso, sono partiti dalla loro Patria […] Non è passato poi così tanto tempo…”. È stato subissato dai commenti, soprattutto dalle offese e dagli improperi razzisti. E se alla maggior parte si fa fatica a trovare un filo logico, tanta la stupidità e la più becera xenofobia, c’è un argomento che ricorre in molti di questi commenti e in generale quando viene affrontato questo discorso: noi (nel senso gli italiani) eravamo immigrati regolari, era tutto legale, andavamo a lavorare, non oziare e chiedere alberghi a cinque stelle o peggio a delinquere, e trovavamo in genere gente pronta ad accoglierci perché siamo buoni lavoratori. Vale la pena provare ad affrontare questi stereotipi il più possibile in modo razionale, e fare un salto nel tempo, riandare a vedere qualcuna delle storie, così simili malgrado i contesti diversissimi, dell’emigrazione italiana, soprattutto in America. Che si, le condizioni sono diverse, in tempi relativamente recenti non si è mai vista una situazione così esplosiva e instabile in Medio Oriente e Africa, ma i flussi migratori sono parte della storia dell’uomo . La manodopera (a basso costo, spesso bassissimo, talvolta praticamente nullo) va dove serve, che sia per costruire, per assistere gli anziani, o, come un secolo e passa fa, per lavorare nei campi di cotone. “Diversamente da quanto si pensa – scrive uno degli specialisti dell’emigrazione italiana, Emilio Franzina, nel libro Traversate (2003) – le migrazioni non costituiscono, nella storia del mondo, l’equivalente di una specie di ictus demografico destinato a manifestarsi solo di tanto in tanto”. Non sono, cioè, una manifestazione straordinaria.

L’invasione americana

Quando si parla di invasione manca, ancora, qualunque profondità storica, qualunque capacità di andare a vedere l’esperienza di italiani di giusto un secolo fa. Si accusavano allora gli italiani di rubare lavoro agli americani, proprio come alcuni fanno ora con gli immigrati. Eravamo tantissimi, specie in alcune zone degli Stati Uniti. Scrive Tim Panzanella sull’Hartford Courant (giornale del Connecticut, uno degli stati più italo-americani) in un articolo di pochi giorni fa: “Il 40% dei carcerati della prigione di stato di Wethersfield erano italiani… c’erano giornali, come Il Corriere di New Haven, Il Progresso di Waterbury e La Tribuna di Hartford. La città di Waterbury [che all’epoca aveva meno di 50.000 abitanti] aveva 17 associazioni civiche italiane, e New Haven [poco più di centomila] aveva 80 società culturali italiane”. Occorre anche sgombrare il campo da un fastidioso stereotipo: non è che i nostri bisnonni venivano qua trovando il deserto pronto da civilizzare. Trovavano americani bianchi, immigrati molto prima di loro, anche secoli prima, visto che in questa zona degli Stati Uniti ci sono insediamenti dal 1600, che si sentivano invasi: un articolo del 27 settembre 1901 proprio sull’Hartford Courant parlando degli italiani li definiva “Anarchici alien [gioco di parole tra alieni e stranieri], reclusi, morti di fame e lunatici”. L’articolo racconta: “Cosa avrebbero pensato [i nostri antenati] di questa assortita gentaglia che il Sud Europa ci manda?”. Evidentemente si sarebbe rigirati nella tomba. “Quattro milioni di italiani – continua Panzanella – emigrarono negli Stati Uniti dal 1880 al 1920”. Un’invasione. “Dal 1876 alla Grande Guerra gli espatri sono oltre 14 milioni”, dice il bel sito del Museo Nazionale dell’emigrazione italiana (MEI). Non andava meglio in altre zone degli Stati Uniti. Al sud, in Louisiana e Mississippi, si andava per lavorare nei campi (zucchero e cotone in primis) e si partiva soprattutto dalla Sicilia. Dal 1880 al 1900 partirono per New Orleans in centomila siciliani. Il 14 marzo del 1895 una folla inferocita entrò nella prigione di New Orleans dove erano rinchiusi (quasi sicuramente ingiustamente) diversi siciliani. Ne uccisero undici. È uno degli episodi che racconta Enrico Deaglio nel suo Storia vera e terribile tra Sicilia e America uscito per Sellerio quest’anno. È “il più grande linciaggio della storia americana”, così il sottotitolo del libro Vendetta di Richard Gambino.

Il pogrom contro gli italiani di New Orleans assomiglia tanto a quelli a cui, per fortuna senza morti, abbiamo assistito a Roma lo scorso anno e nel nord-est nelle scorse settimane quando, bravi cittadini per nulla fascisti, si sono scagliati contro indifesi e chiaramente spaventati immigrati e richiedenti asilo lanciando pietre, bruciando materassi, e urlando slogan di varia e poco civile natura. Chi sa, magari i loro bisnonni emigrarono in Australia o in Germania o negli Stati Uniti. Ma c’era bisogno di manodopera negli Stati Uniti di allora, oggi invece non serve manodopera, è il refrain dei razzisti italiani. Hanno torto, naturalmente. Un rapporto dell’Ocse (Organizzazione per lo sviluppo economico) uscito la scorsa estate con suo linguaggio burocratico e politically correct affermava che “la maggior parte della migrazione di forza lavoro è dovuta ad una grande richiesta di lavoratori poco qualificati, soprattutto per i servizi domestici e assistenziali e nelle piccole imprese”. Tradotto: visto che non avete voglia voi di pulire il sedere a vostra nonna o di svegliarvi alle 6 per mungere le mucche della Pianura Padana, ci pensano gli immigrati. Gli immigrati e il lavoro sottopagato in generale compensano anche le mancanze del welfare, visto che “il ricorso a donne immigrate sottopagate è diventato così uno dei meccanismi per compensare l’insufficienza di servizi pubblici”. E sempre il rapporto racconta di come la stragrande maggioranza degli immigrati siano impiegati in mestieri (come badanti o manovali dell’edilizia) dove fare carriera sia difficile. L’approccio è quindi quello dell’uso e abuso della forza lavoro finché serve, per poi disfarsene. Ancora, non siamo così lontani da dinamiche classiche dell’immigrazione, di cui dovremmo avere memoria nel nostro paese (per chi volesse approfondire, c’è una bella sintesi del rapporto Ocse sull’Espresso).

Carrette del mare

Emigrare allora, come oggi, non era tutto rose e fiori. Allora come oggi si parte non essendo sicuri di arrivare. “Al trasporto dei migranti sono assegnate le carrette del mare, con in media 23 anni di navigazione. Si tratta di piroscafi in disarmo, chiamati ‘vascelli della morte’, che non potevano contenere più di 700 persone, ma ne caricavano più di 1.000, che partivano senza la certezza di arrivare a destinazione”. No, non si parla delle carrette che arrivano dal nord Africa, ma dei barconi che stracarichi di materiale umano solvano le onde dell’Oceano Atlantico. E appunto, non sempre arrivavano a destinazione, e se non bastassero Leonardo Di Caprio e Kate Winslet a ricordarcelo (che sì, anche sul Titanic c’erano molti italiani), ecco qualche altro dato: morirono “576 emigrati, quasi tutti meridionali, nel naufragio dell’Utopia avvenuto il 17.3.1891 davanti al porto di Gibilterra; 549 emigrati, di cui numerosi italiani, nel naufragio del Bourgogne avvenuto al largo della Nuova Scozia il 4.7.1898; 1.198 emigrati, di cui numerosi italiani nel naufragio dei due Lusitania, avvenuti il primo nelle acque di Terranova il 25.6.1901…” e via dicendo, la lista è lunga, sempre sul sito del Mei ci si può deprimere un po’ pensando a nonni e bisnonni morti in fondo a un mare più grande del Mediterraneo. E poi, visto che le condizioni a bordo erano disumane, si moriva anche di malattia: “Fino ad oggi su 600 imbarcati ci sono stati 45 decessi dei quali: 20 per febbre tifoide, 10 per malattie broncopolmonari, 7 per morbillo, 5 per influenza, 3 per incidenti in coperta”, racconta implacabile il diario di bordo del piroscafo Città di Torino nel novembre 1905. Vero, è passato un secolo, ma questo non giustifica di certo la memoria corta.

Illegali, anarchici, mafiosi e gentaglia varia

Ci sono quelli sbraitano che “eh ma quella era immigrazione legale, mica come questi selvaggi che vengono illegalmente”. Oltre che agli immigrati di oggi, bisognerebbe chiederlo agli affondati e ai morti di malattia sulle carrette di allora  se per loro essere “legali” o meno ha avuto una qualche differenza. Che poi anche questa storia dell’immigrazione legale va un po’ ridimensionata: intanto perché quelli che varcavano più vicini e meno complicati confini, come quelli con i paesi europei, spesso non lo facevano legalmente, ma la storia ci dice che neanche quelli che andavano in America erano sempre proprio con le carte in regola. E venivano, anche loro, rimandati a casa. L’italo-americano Edoardo Corsi, sbarcato a Ellis Island a inizio secolo, è uno di quelli che ce l’ha fatta, il sogno americano per lui si è realizzato, e negli anni Trenta tra un incarico prestigioso e l’altro viene nominato direttore della stessa isola. In questo ruolo ha assistito a violenze e soprusi di vario genere, e raccontava come “Le nostre leggi sul rimpatrio sono inesorabili e in molti casi disumane, particolarmente quando si riferiscono a uomini e donne dal comportamento onesto il cui unico crimine consiste nel fatto che hanno osato entrare nella terra promessa senza conformarsi alla legge” (sempre dall’ottimo sito del Mei). Sono storie che abbiamo rimosso, e abbiamo rimosso quelle eccellenti, figuriamoci quelle di cui andiamo meno orgogliosi. Perché giova ricordarlo che la mafia l’abbiamo importata noi, ed era una cosa molto meno pop dei Sopranos e del Padrino. In fondo l’articolo dell’Hartford Courant ha parzialmente ragione, importavamo non solo mafiosi, ma anche anarchici e rivoluzionari di vario tipo. Già perché, come sembrano aver dimenticato quasi tutti – incluse le comunità italo-americane, che ammettono al pantheon solo certi eroi, in genere poliziotti, militari, e sportivi – abbiamo importato forme di lotta radicale che prevedevano anche l’uso della forza contro l’ordine costituito. Uno dei più importanti attentati compiuto sul suolo americano, a Wall Street (qualche metro più in là delle Torri Gemelle) del 1920, che causò la morte di 38 persone e il ferimento di 143, fu compiuto quasi certamente da un italiano, e altri se ne potrebbero menzionare: in qualunque modo si veda questi gesti, come legittime forme di lotta, spregevoli atti di terrorismo, o altro tra questi due estremi, sicuramente lo stereotipo degli italiani bravi lavoratori e degli immigrati di oggi terroristi non regge. C’erano gli italiani, e soprattutto due figure importantissime nella storia delle lotte sindacali negli Stati Uniti come Joseph Ettor e Arturo Giovannitti, in testa allo sciopero di Lawrence (in Massachusetts) del 1912, quello diventato famoso per lo slogan il pane e le rose. E se magari ci ricordiamo di più di Sacco e Vanzetti o che Gaetano Bresci, prima di tornare per togliere dalla circolazione Umberto I, era emigrato negli Stati Uniti, decine di militanti all’epoca piuttosto in vista sono quasi caduti nel dimenticatoio: importanti leader anarchici come Carlo Tresca o Luigi Galleani, altri più istituzionali come Vito Marcantonio, uno dei membri più di sinistra del Congresso americano, vicino alle lotte dei lavoratori e ai comunisti, e molti altri se ne potrebbero citare. È lapalissiano ricordare come anche allora, come oggi, c’erano emigranti che finivano per delinquere, altri che lavorano sodo abbassando la testa, altri che preferiva alzarla e lottare per condizioni di lavoro migliori, altri che non ce la facevano, per una serie di motivi, e tornavano a casa, altri ancora che venivano brutalmente uccisi da chi evidentemente non aveva tanto piacere ad accoglierli, altri che morivano in “tragiche fatalità” (come nella miniera Monongah nel West Virginiain nel dicembre 1907, circa 350 morti, almeno 171 italiani) dovute spesso al troppo lavoro, a condizioni invivibili, allo sfruttamento.

(Non più) benvenuti a Londra

E poi l’Italia è ancora un paese di emigranti, non solo uno alle prese con una gigantesca crisi umanitaria. Di recente hanno fatto notizia i 57mila e passa italiani che si sono spostati a Londra tra 2014 e 2015, e adesso nella capitale inglese ci sono circa 250mila connazionali – dove, è notizia di questi giorni, forse non siamo più benvenuti visti i tentativi di modificare le leggi sull’immigrazione. E poi ci sono gli oriundi, quelli ormai stabilmente all’estero, quelli di seconda terza quarta generazione: la diaspora italiana è enorme. Allora forse non c’è neanche bisogno di andare alle memorie di un secolo fa. Anche se in larga parte non partiamo più con fagotto e miseri risparmi di una vita, anche se non siamo più i “negri d’Europa”, non ci avventuriamo su carrette che attraversano i mari, molti italiani continuano a fare esperienza di una qualche forma di immigrazione, magari privilegiata, ma che spesso continua a portarsi dietro se non i problemi di una volta sicuramente sradicamento, complessità burocratiche, lontananza da casa, e via dicendo. La storia dell’emigrazione è insomma una storia intimamente nostra, anche se ce lo scordiamo troppo spesso.

 

TAG: arturo giovannitti, gaetano bresci, Joseph Ettor, museo nazionale dell'immigrazione italiana
CAT: immigrazione

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