Ci ricordiamo ancora del piccolo Aylan?

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25 Ottobre 2015

Era il 2 settembre 2015, meno di due mesi fa, quando il mondo era scioccato per l’immagine del piccolo Aylan, bimbo curdo di 3 anni in fuga dagli orrori della guerra siriana. L’immagine ha prodotto un effetto dirompente con un diluvio di solidarietà per la tragedia del bambino raccolto privo di vita sulla spiaggia di Bodrum. Subito è stato innescato il dibattito sull’opportunità di pubblicare o meno quella fotografia. Un confronto serrato che vedeva i favorevoli schierati sulla posizione (la sintetizzo brutalmente) del “si deve pubblicare per sensibilizzare e capire cosa accade davvero”. In effetti, in un primo momento, l’impatto è stato forte: l’opinione pubblica internazionale ha subito uno shock con un approccio più umano al problema.

Ma, come temevo, appena è stato superato il trauma dell’istante poco o nulla è cambiato. Anzi quello scatto terribile, che ha fatto piangere migliaia di persone, ha perso il suo senso più forte, è stato svuotato del messaggio tragico che veicolava, anche a causa della banalizzazione della condivisione social. Il nobile intento di rafforzare la denuncia di “quanto siamo crudeli” ha sortito l’effetto contrario. Detto in maniera più brutale: ci ha assuefatti, ci ha quasi abituati a vederla e rivederla sul nostro ‘rullo’ di Facebook postata da decine di contatti e di siti di informazione di ogni genere. Così, appena è finita la grancassa mediatica rispetto alla tragedia dell’immigrazione, tutto è tornato come prima con il sollievo di non doverci sorbire quella foto. Con tanti saluti alla scossa della coscienza collettiva rispetto a quei drammi che avvengono quotidianamente.

Per capire come è la situazione attuale suggerisco di prodursi in un esercizio: digitare su Google la stringa “tragedia al largo delle coste”. I risultati consegnati dal motore di ricerca sono numerosi. Propongo quindi di accedere alla sezione di Google News per leggere quante tragedie simili sono accadute, e sono state riportate dai siti di informazione dopo quel terribile giorni di settembre, quando Aylan è stato fotografato con la testa sulla sabbia di Bodrum. Senza dimenticare i morti annegati che nemmeno ottengono una riga di articolo, perché non c’è traccia del loro destino: vengono inghiottiti dal mare in silenzio. E quindi dall’inizio settembre ci sono tanti altri piccoli Aylan, per cui la diplomazia occidentale ha fatto poco o niente e l’opinione pubblica è tornata a infilare la testa sotto la sabbia senza commuoversi né chiedere una soluzione al conflitto a monte. Perché – giusto per ricordarlo – in Siria si muore come prima. Anzi no: si muore più di prima visto l’irruzione sullo scenario del conflitto dei jet russi con lo stile proprio di Vladimir Putin.

Insomma la verità è che, a distanza di due mesi, la bulimia di informazione e il diluvio di immagini hanno reso già molto pallido il ricordo di Aylan. Figuriamoci poi se quell’immagine ha davvero cambiato la storia dell’accoglienza dei rifugiati, come i più “ottimisti” avevano auspicato.

TAG: aylan kurdi, immigrazione
CAT: immigrazione, Medio Oriente

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