La via stretta tra accoglienza e rigore. I discorsi di Mattarella e Merkel

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1 Gennaio 2016

Il discorso di fine anno di un capo di Stato o di Governo è per antonomasia un appuntamento irrinunciabile e seguito, che rischia però di scivolare ben presto nel cono d’ombra dell’irrilevanza e della stanca ritualità. Alzi la mano chi si ricorda un passaggio chiave dei nove discorsi pronunciati da Giorgio Napolitano in questi ultimi travagliati anni di Seconda Repubblica declinante, a cavallo tra effimera rifioritura del berlusconismo, avvento dei tecnici in loden ed esplosione della furia iconoclasta di marca grillina. Anni in cui il Quirinale è diventato, per fisiologica compensazione all’indebolimento di Parlamento e governi, un centro politico di primaria importanza, trasformando il proprio inquilino nel primo “monarca repubblicano” ad essere riconfermato a fine mandato per mancanza di autorevoli alternative (e incapacità politica di proporne).

Non è un caso dunque che il primo discorso di fine anno pronunciato dal successore di Giorgio Napolitano, Sergio Mattarella, sia stato contraddistinto dalla rumorosa assenza dei termini “Parlamento”, “governo” e “riforme” (come sottolineato in un commento de La Stampa). In un momento in cui Palazzo Chigi è ritornato ad essere il palcoscenico di un one-man-show incentrato sulla dinamica figura di Matteo Renzi, al timido democristiano siciliano spetta un ruolo diverso, meno “politico” e più “istituzionale”. È lo stesso Mattarella a chiarirlo fin dalle prime battute: le riflessioni concernenti la politica internazionale e le questioni “alte” sono già state espresse nelle sedi opportune. Non è alle alte cariche che Mattarella intende rivolgersi, ma agli italiani. Le sue parole non tratteranno i benefici dell’Italicum o i temi su cui insistere maggiormente nella defatigante dialettica con Bruxelles, ma saranno rivolte ai piccoli grandi problemi quotidiani di un Paese che esce, con difficoltà, da anni di recessione e incertezza. Non a caso il primo tema è quello del lavoro.

Sul cambio di location sono già state spese molte parole e infiniti tweet. Alla scrivania dello studio, dalla quale Napolitano lanciava i suoi austeri moniti e sferzava la classe politica, Mattarella preferisce il suo appartamento, occupato quasi controvoglia. Spicca sullo sfondo la macchia rosso sgargiante delle stelle di Natale, a cui si contrappone la delicata simbologia di un presepe nella sua teca di vetro. Mattarella è in poltrona, ma si muove molto spesso seguendo le telecamere. Lo sguardo è leggermente sollevato, tiene i fogli sulle ginocchia e scandisce per diciannove minuti parole mai banali e ferme. Sa di andare incontro al senso comune quando prende per le corna il problema dei problemi, l’immigrazione. Tema sul quale in Italia sono state costruite intere carriere politiche. Il leghista Massimiliano Fedriga, ospite dello studio di Paolo Del Debbio su Retequattro, arriverà ad affermare che le parole di Mattarella sono un chiaro endorsement alle soluzioni proposte da Matteo Salvini. Il Presidente, come è naturale che sia, non parla certo di “invasione”. Colpiscono però la sua incisività e l’uso accorto dei numeri. Sottolinea, volutamente, la necessità di affrontare il fenomeno non solo con il cuore o la pancia, ma soprattutto con la testa: “Il fenomeno migratorio nasce da cause mondiali e durerà a lungo. Non ci si può illudere di rimuoverlo, ma si può governare. E si deve governare”. Fa riferimento all’insistenza con cui l’Italia sollecita l’Unione Europea, ricorda il passato di emigrazione del nostro Paese (citato spesso a sinistra), ma riconosce la necessità di distinguere tra richiedenti asilo e migranti economici (cavallo di battaglia della destra). Richiama il valore dell’accoglienza, ma pronuncia anche il termine “rigore”. Cerchiobottismo? Forse. Sicuramente il tentativo di parlare a tutti gli italiani: sia a quelli in prima linea nell’accoglienza, sia a quelli che legittimamente si sentono smarriti di fronte all’impatto di un fenomeno all’apparenza ingovernabile. Né melassa né fucile a pallettoni. Piuttosto il tentativo di trovare una sintesi, di estrarre dalle gazzarre quotidiane dei pastoni un fragile nucleo di “senso comune condiviso” da mettere a frutto e tradurre in policy nell’anno che verrà.

Diverso il tenore del discorso pronunciato dalla Cancelliera tedesca Angela Merkel. Ancora più omnicomprensivo nei contenuti (si conclude con un compiaciuto augurio alla Nazionale di calcio tedesca campione del mondo e a tutti gli atleti olimpici), ma molto più politico nei toni e nei temi. Merkel indossa un elegante abito rosso e la consueta collana di perle. Sullo sfondo, la cupola avveniristica del Parlamento tedesco. Le bandiere alle sue spalle, tedesca ed europea, sono drappeggiate in modo talmente scenografico da sembrare dipinte. La zarina dell’austerity, spauracchio dell’Unione Europea, ha un fare quasi materno: sorride spesso, anche se affronta temi spinosi e drammatici. Ringrazia dal profondo del cuore i cittadini tedeschi che hanno facilitato, con la loro straordinaria solidarietà, l’arrivo dei rifugiati ai quali ha aperto le porte del Paese. Sa che tale decisione è tra quelle più contestate dell’anno. È consapevole che il partito gemello della sua CDU, la bavarese CSU, non è disposto a tollerare il “buonismo” della Cancelliera ancora per molto. Deve constatare, con realismo, che l’estrema destra euroscettica ed islamofoba è destinata a raccogliere consensi crescenti alle prossime elezioni regionali in marzo.

Merkel è un capo di governo, alla guida di un partito conservatore e al timone di un gabinetto di Grande Coalizione. Il tema immigrazione è parte integrante della sua agenda, misura imprescindibile del suo operato. Il suo è un discorso che si apre con riferimenti alle dinamiche geopolitiche globali, ma che riconosce il valore di preoccupazioni più “prosaiche” quali quelle per i costi sostenuti. Non indica soluzioni predefinite, ma afferma perentoriamente: “La Germania è un paese forte, ce la faremo”. Attacca quanti vogliono appropriarsi in modo strumentale del diritto di essere tedeschi escludendo quanti non lo sono per nascita o cultura, ma insiste su un punto fondamentale: valori e tradizioni, lingua e leggi sono i prerequisiti fondamentali per la convivenza e l’integrazione. Quanto affermato da Mattarella dal Quirinale. Toni diversi, stessa sostanza.

Merkel e Mattarella, non a caso, hanno in comune l’appartenenza alla famiglia politica del popolarismo europeo e del cristianesimo democratico. Un centro-destra morso ai fianchi dai facili slogan dell’estrema destra propugnatrice della chiusura dei confini, sulla stessa barricata dei partiti socialisti nel contrasto allo straziante dramma dell’immigrazione. L’approccio “conservatore” sembra quello delineato da due leader: la conciliazione tra il dovere (umano, più che politico) dell’accoglienza e l’imprescindibile necessità di mantenere saldi valori-cardine quali l’identità e la legalità. La vera sfida di questo 2016 è dunque la “via stretta” tra l’alto valore etico della solidarietà e la difesa di un nucleo valoriale senza il quale le nostre società sono destinate a lacerarsi.

TAG: angela merkel, europa, Germania, sergio mattarella
CAT: immigrazione, Partiti e politici

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