L’impresa sarebbe trovare qualcuno d’accordo su almeno una delle proposte di revisione del sistema di asilo e protezione dei rifugiati in discussione da anni a livello comunitario. Qualcuno, cioè un Paese membro, un europarlamentare o anche solo un cittadino. Questa mattina a Lussemburgo i ministri dell’interno dei 28 hanno avviato la discussione tecnica sul CEAS, il sistema comune di asilo. Difficilmente si arriverà a una decisione, ma si capiranno gli orientamenti in vista della riunione del Consiglio europeo del 28 e 29 giugno quando i singoli paesi formalizzeranno la propria posizione sul tema. Assente il ministro italiano, Matteo Salvini, che nei giorni scorsi ha comunque chiarito l’indisponibilità dell’Italia ad approvare la riforma del regolamento di Dublino così come proposta dalla presidenza di turno della Bulgaria, di cui parliamo più sotto. La posizione di Salvini rappresenta la continuità rispetto al lavoro fatto negli ultimi cinque anni dai governi e dai parlamentari europei italiani. Ma in buona sostanza, il fenomeno dei flussi migratori è la nuova forntiera europea e un terreno di scontro micidiale tra i 28. Uno scontro che si estende in maniera trasversale fino alle fondamenta dell’Unione toccando le modalità con cui vengono prese le decisioni, il budget pluriennale, il sistema di libera circolazione delle persone e, ovviamente l’idea stessa di Unione e di solidarietà tra i diversi territori.
Per capirci qualcosa nella complessa vicenda dei flussi migratori e su come la stanno affrontando i paesi europei è necessario fare qualche passo indietro.
La crisi dei migranti. Parlare di emergenza in questo campo è, sulla base dei fatti, alquanto azzardato. Dalla caduta del muro di Berlino nell’autunno del 1989, l’Europa è diventata la terra promessa in ordine sparso delle popolazioni balcaniche prima a causa della crisi albanese e della guerra nella ex Jugoslavia, dei lavoratori dell’est prima dell’ingresso nell’Unione – in particolare polacchi e romeni – degli afgani in fuga dalla guerra all’inizio del decennio scorso e dei migranti economici e richiedenti asilo dell’Africa sub sahariana dalla seconda metà degli anni Duemila. A questi flussi si è sovrapposta la crisi siriana con la guerra civile cominciata nel 2011. In poco tempo il Mediterraneo è diventata la via di comunicazione più rapida, più trafficata e più pericolosa (secondo l’Organizzazione internazionale dei migranti solo nel 2017 quasi 3.200 persone hanno perso la vita in mare). Non c’è dubbio che l’intensificazione del fenomeno ha messo a dura prova i paesi sulla sponda nord del Mediterraneo. In Italia gli arrivi via terra e via mare sono stati dal 2012 al 2016 tra i 180 e i 200 mila, numeri di poco inferiori rispetto alla Spagna e molto vicini a quelli registrati in Grecia. Dove, però, nel solo 2015 sono sbarcate 850 mila persone.
Il nostro Paese, così come gli altri stati dell’area del Mediterraneo (Spagna, Grecia, Malta e Cipro) sono quelli che subiscono la maggiore pressione migratoria e chiedono da tempo di riformare il sistema di asilo per i rifugiati, le regole di accoglienza e un meccanismo di ricollocamento dei richiedenti asilo in tutti i paesi dell’Unione.
A mettere l’argomento sul tavolo comunitario è stato il governo Renzi, con una lettera dell’allora presidente del Consiglio del 15 aprile 2016. La Commissione europea ha fatto seguito all’iniziativa italiana proponendo due pacchetti di riforme, a maggio e a luglio dello stesso anno, accompagnate da una proposta di riforma del regolamento di Dublino.
Il regolamento di Dublino “stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo o da un apolide”. Il regolamento è un atto giuridico immediatamente efficace e in vigore per tutti i paesi membri, cioè non è soggetto a ratifica da parte dei parlamenti nazionali. Nella sua ultima versione (604/2013), il regolamento di Dublino prevede che il primo paese di arrivo del richiedente asilo sia responsabile di esaminare la domanda di protezione e mantenga tale responsabilità fino a quando la persona rimane dentro i suoi confini e fino a 12 mesi nel caso la persona si sposti in un altro paese membro dell’unione. La norma, prevista fin dalla prima versione del regolamento nel 2003, intende scoraggiare i cosiddetti “movimenti secondari”, cioè lo spostamento dei migranti da un paese all’altro all’interno dei confini dell’Unione. Queste regole rimangono il principale nodo della contesa tra gli stati.
La proposta della Commissione Europea. La Commissione prevedeva il mantenimento della responsabilità per il paese di prima accoglienza, ma con delle soglie – basate sul Pil e sulla popolazione – al superamento delle quali scattava il meccanismo di ricollocamento automatico. Gli Stati membri possono astenersi dalla partecipazione al meccanismo correttivo per un massimo di dodici mesi, ma sono tenuti a versare 250 mila euro per ogni richiedente asilo al Paese che in quel momento ha superato la soglia indicata (la Commissione ha previsto che la soglia fosse del 150 per cento).
Il lavoro del Parlamento europeo. Le proposte di riforma elaborate nel 2016 dalla Commissione sono approdate in Parlamento Europeo dove sono state fortemente emendate. Dopo un anno e mezzo di lavoro e di negoziati, racconta agli Stati Generali Elly Schlein relatrice per la riforma del regolamento di Dublino per il gruppo S&D (socialisti democratici), «a novembre 2017 abbiamo trovato una larghissima maggioranza per approvare un testo condiviso. Il Parlamento ha cancellato l’ipocrisia originaria del primo paese di accesso e lo ha sostituito con un meccanismo permanente e automatico di quote che obbliga il paesi membri ad accettare i ricollocamenti o a vedersi penalizzati nell’assegnazione dei fondi strutturali. Si tratta di un passo avanti notevole per paesi come Italia e Grecia». Inoltre, introduce quelli che Schlein chiama legami significativi. «La riforma prevede diverse misure innovative, come una nuova procedura accelerata di ricongiungimento familiare, per cui basteranno sufficienti indicazioni sulla presenza di un familiare in un altro stato membro per un rapido ricollocamento». Un meccanismo che si applica anche nel caso di permessi di soggiorno precedenti e titoli di studio conseguiti in un certo paese. Di fatto se un richiedente asilo ha familiari o legami di parentela con un determinato paese membro, sarà quello stato a doversene occupare e a esserne responsabile fin dal primo giorno. «Secondo noi è l’unico modo per alleggerire la pressione sui paesi del Mediterraneo e allo stesso tempo rispettare i diritti dei richiedenti asilo e facilitarne l’inserimento sociale», afferma Schlein. Infine, il testo approvato dal Parlamento prevede un sistema di giuste quote: se un paese ha un numero eccedente di richiedenti asilo, quelli che non possono essere ricollocati per legami familiari o precedenti di studio o lavoro in un altro paese dovranno scegliere una destinazione tra i quattro stati membri che sono più lontani dal raggiungimento della quota di accoglienza. «In questo modo», assicura l’eurodeputata italiana, «nessuno può essere più rimandato in Italia perché l’Italia è stato il primo paese di sbarco». Su questo testo la convergenza a novembre è stata larga. Oltre ai socialdemocratici lo hanno votato i verdi, la sinistra unitaria, i liberali e i conservatori. Si sono invece opposti i membri del Movimento 5 Stelle, mentre la Lega Nord ha espresso voto contrario in commissione per poi astenersi in aula. In particolare il M5S denuncia l’applicazione di filtri che di fatto renderebbero vana l’abrogazione del principio del primo paese di accoglienza.
Il Consiglio dell’Ue. Il processo legislativo comunitario prevede che il testo approvato dal Parlamento venga portato in una sorta di negoziato con il Consiglio dell’Unione europea che, a sua volta, dovrebbe sedersi al tavolo (a cui siede anche la Commissione europea) con un proprio testo e quindi una propria posizione condivisa. Condizione che finora non si è ancora avverata. In sede di Consiglio il dibattito su come riformare il sistema di asilo si è incentrato in particolare sul ruolo dei singoli paesi, ma non ha mai trovato una sintesi. I paesi membri restano profondamente divisi. Dall’estate del 2016, cioè da quando la Commissione ha sottoposto le proprie proposte di riforma del sistema di accoglienza e di asilo, gli Stati non si sono mai messi d’accordo, tanto che la presidenza di turno dell’Ue, la Bulgaria, nel tentativo di trovare almeno una maggioranza se non l’unanimità, ha lavorato a una proposta di mediazione presentata nei mesi scorsi. Trattandosi del Consiglio, il documento non è pubblico, ma i contenuti principali sono i seguenti:
L’idea bulgara, come ha sottolineato ieri Salvini, risulta irricevibile per l’Italia perché sarebbe peggiorativa rispetto alla situazione attuale e caricherebbe ancora di più il peso dei flussi migratori sul nostro paese e sulla Grecia, rischiando inoltre di vanificare il lavoro politico fatto dai precedenti governi. Del resto, non più tardi di aprile l’Italia aveva presentato un documento di tredici punti fortemente critico insieme con Grecia, Spagna, Malta e Cipro. Sulla stessa linea di Salvini anche l’eurodeputata del Movimento 5 Stelle, Laura Ferrara, afferma che «il dialogo con l’Europa deve partire accelerando l’approvazione definitiva del regolamento che stabilisce una procedura comune di protezione internazionale nell’Unione un testo scritto dal Movimento 5 Stelle che ha già avuto il via libera del Parlamento europeo. Grazie a questo regolamento impiegheremo solo sei mesi per valutare una domanda di protezione internazionale, ci sarà una riduzione del carico burocratico per i Paesi di primo ingresso e taglieremo il cordone ombelicale che lega la criminalità organizzata con la gestione dei centri di accoglienza». La proposta della presidenza bulgara scontenta, ovviamente, i paesi dell’Est Europa che non vogliono sentir parlare di ricollocamenti e, a quanto apprendiamo, anche i tedeschi sono sufficientemente delusi. A poco sono serviti i richiami di Angela Mekel nell’intervista di domenica scorsa alla Frankfurter Sonntagszeitung: «la libertà di movimento si basa sulla protezione delle frontiere esterne dell’Ue», ha detto la cancelliera tedesca. «Se non tutti gli stati membri hanno fiducia nella protezione delle frontiere esterne e nella cooperazione con i nostri vicini, l’Europa tonerà a un’epoca pre-Schengen, con gravi ripercussioni per la nostra prosperità. Ecco perché è una questione di esistenza. Parte dell’insicurezza dell’Italia ha origine dal fatto che gli italiani si sentono soli dopo il crollo della Libia per accogliere i numerosi rifugiati e migranti dall’Africa. Abbiamo bisogno di un sistema comune di asilo e di standard comparabili nel decidere chi ottiene l’asilo e chi no. E l’agenzia europea di gestione delle frontiere Frontex deve diventare a medio termine una vera polizia di frontiera europea con competenze europee. Ciò significa che la polizia di frontiera europea deve avere il diritto di agire in modo indipendente alle frontiere esterne».
Il progetto di potenziamento delle frontiere esterne citato dalla Merkel è inserito nella proposta di budget pluriennale avanzata dalla Commissione europea per il settennato 2021-2027. Per le frontiere esterne e la gestione dei migranti la disponibilità passerebbe da 12,4 a 33 miliardi, una fetta consistente dei quali dovrebbe consentire la creazione di un corpo di polizia di frontiera e una guardia costiera forte di 10 mila uomini. Ma anche il budget, così come le riforme dell’asilo e dell’accoglienza deve passare dalle forche caudine del Consiglio dell’Ue, quindi dalle volontà dei singoli stati.
Intanto i tempi si fanno stretti e per la Commissione europea si profila lo spettro di un non accordo. Il 1 luglio comincia il semestre europeo dell’Austria il cui cancelliere, Sebastian Kurz, sarà ragionevolmente indisponibile a rivedere il regolamento di Dublino e qualsiasi riforma che preveda una responsabilità condivisa nella gestione dei flussi migratori. Per il neo ministro dell’Interno italiano, Matteo Salvini, sarà comunque un bel banco di prova. Dopo anni di flirt con il primo ministro ungherese Orban, ora il gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia) rischia di presentargli un conto amarissimo proprio sul tema con cui lui e la Lega hanno stravinto la campagna elettorale. Le prime avvisaglie, Salvini le ha avute proprio oggi al Consiglio a cui non ha partecipato, come sottolinea ancora Elly Schlein: «Salvini alla fine sbatterà contro il muro di Orban e questo improbabile asse sarà tutto a spese dell’Italia, perché se Dublino rimane così com’è, siamo noi che ci perdiamo, non Orban. Mentre Salvini parla di un accordo con Orban per cambiare l’Europa, dall’altro il presidente del Consiglio Conte al Senato invoca sistemi automatici di ricollocamento obbligatorio dei richiedenti asilo nei vari Paesi membri dell’Unione, esattamente ciò che abbiamo votato al Parlamento europeo. Peccato che Orban, insieme ai paesi di Visegrad, sia tra i più granitici oppositori ad ogni forma di condivisione delle responsabilità sull’accoglienza nell’Ue. Oggi al Consiglio sono andati in scena i soliti egoismi nazionali. I governi europei dovrebbero fare tesoro dell’esempio del Parlamento, che ha saputo trovare una ampia e trasversale maggioranza su una proposta di riforma basata sul principio di solidarietà previsto nei Trattati e dando finalmente una risposta europea a una sfida europea, che nessuno Stato può affrontare da solo».
(Immagine di copertina, Massimiliano Sestini, WordPress Photo, second prize, 2015)
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