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Nel 2024, indossare il velo: obbligo, divieto o libera scelta?

29 Gennaio 2024

La notizia è di pochi giorni fa: il 15 gennaio, in Iran due giornaliste sono state messe di nuovo sotto accusa perché non indossavano correttamente il velo islamico. Niloofar Hamedi e Elaheh Mohammadi, da poco rilasciate su cauzione dal carcere di Evin (Teheran) dove stavano scontando la pena di 13 e 12 anni cui erano state condannate per aver denunciato la morte di Mahsa Amini, sono state accusate di aver tenuto un comportamento in contrasto con la legge islamica, e per questo chiamate nuovamente a processo. “A seguito di un filmato diffuso online che ritrae le imputate senza hijab, la procura ha aperto un nuovo fascicolo nei loro confronti” ha riportato l’agenzia stampa Mizan in riferimento al processo che vede dall’ottobre 2023 le due giornaliste, 31 e 35 anni, accusate dalla giustizia iraniana di cospirazione contro le autorità e “propaganda filostatunitense”.

Con il suo “Decreto legge a sostegno della cultura della castità e del velo” approvato dalle autorità il 20 settembre scorso, l’Iran è considerato uno degli Stati con politiche di genere tra le più integraliste, e costituisce uno dei pochi paesi al mondo in cui l’obbligo per le donne di indossare il velo nei luoghi pubblici è ancora strettamente riconosciuto. Stando all’Osservatorio dell’Atlante guerre e conflitti, infatti, ormai sarebbero poco più di una manciata gli Stati nel mondo nei quali, ad oggi, si applica ancora questa norma – e, precisamente, Arabia Saudita, Afghanistan, Yemen (per il burqa integrale), e alcune nazioni africane.

Via via meno imposto nei paesi di fede musulmana, il velo è, di contro, sempre più al centro del dibattito politico delle società occidentali. Categoricamente proibito nella Cina di Xi Jinping, il velo integrale è sempre meno popolare tra gli elettori degli Stati Uniti, e sempre meno tollerato – quando non, addirittura, interdetto – nell’Unione Europea “della libertà religiosa e della laicità”.
Proibito negli spazi pubblici di Francia, Austria, Olanda, Bulgaria e altri Stati, il velo è soggetto a limitazioni via via maggiori nei paesi dell’area UE nei quali, spesso in luce di vecchie legislazioni antiterrorismo che proibiscono la circolazione a volto coperto (è il caso, ad esempio, di Germania e Italia), la lista dei luoghi dove è possibile indossare abaya, burqa e niqab si sta restringendo sempre di più – questo mettendo, il più delle volte, le interessate davanti alla scelta tra scoprirsi il capo o abbandonare la sala, l’evento o il posto di lavoro.

Ed è esattamente in questo contesto che si inserisce la recente, quanto criticata, decisione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea che ha deciso, in un provvedimento adottato in chiusura dello scorso anno, che imporre alle dipendenti della PA l’obbligo di non indossare il velo sul luogo di lavoro costituisce un comportamento legittimo, che non incide sulla libertà personale e religiosa delle interessate.

La vicenda è questa: OP, impiegata di fede musulmana impiegata negli uffici della Pubblica Amministrazione di Ans (Belgio), nel maggio 2023 era stata obbligata dai suoi datori di lavoro a rimuovere il niqab durante le ore di impiego – pena, il licenziamento. Impiegata negli uffici della gestione appalti dove svolgeva soprattutto funzioni di “back office”, la donna in nessun modo lavorava a contatto con gli utenti; per questo, essa era solita recarsi al lavoro con il suo niqab, in quanto non rientrante nel divieto in vigore in Belgio dal 2017 che impone a chi lavora con il pubblico di non indossare copricapi che possono in qualche modo coprire il viso. Così, la donna aveva presentato ricorso al Tribunale del lavoro di Liège, lamentando di aver ricevuto un trattamento discriminatorio. Investito della questione, il tribunale belga aveva trasferito la domanda ai giudici di Lussemburgo, così che fosse la più alta giurisdizione dell’Unione Europea a prendere posizione su un tema di potenziale rilievo anche per gli altri Stati dell’UE.

Ebbene, questa la decisione della Corte: “[…] il divieto di indossare simboli religiosi può essere considerato oggettivamente giustificato da una finalità legittima: la necessità di rendere gli ambienti di lavoro luoghi totalmente neutri, nonché privi di ogni connotazione politica, ideologica o religiosa”. Precisa la Corte: “la decisione di creare un ambiente di lavoro neutro, beninteso, non deve riguardare solamente la regolamentazione del velo islamico: al contrario, dal momento in cui si decide di vietare burqa e niqab, allora tutti i simboli di qualsiasi credo religioso dovranno essere proibiti, e il divieto dovrà riguardare, dunque, anche crocefissi, turbanti e kippah” (ricordiamo che, per le stesse ragioni, la Corte di Cassazione italiana nel 2021 ha stabilito che è possibile, per le scuole, scegliere di esporre il crocefisso in aula).

Accolta come una conferma dalle istituzioni europee (il provvedimento, infatti, va a confermare un orientamento già adottato dalla Corte nel 2021), la decisione ha suscitato una serie di reazioni di sorpresa – provenienti, soprattutto, da comunità religiose e ONG attive nelle questioni di genere. “Tutti coloro che hanno una fede o un credo religioso rimarranno molto colpiti da questa sentenza”, ha dichiarato Dabinderjit Singh, portavoce della Sikh Federation della Gran Bretagna all’indomani della pronuncia, mentre dall’Inghilterra si ribadiva come nel Regno Unito ognuno sia libero di indossare ciò che vuole sul proprio luogo di lavoro, a patto che ciò non interferisca con le sue funzioni (al contrario di Francia e Belgio, infatti, l’Inghilterra non ha mai adottato il divieto di indossare il velo o altri simboli religiosi in pubblico, ne’ per motivi di sicurezza ne’ per altre ragioni).

L’Europa deve fare qualcosa per risolvere il problema dell’estremismo laico che si sta diffondendo in molti paesi del continente”, continua Singh, “Quale sarà la prossima discriminazione adottata con il pretesto di creare ‘un ambiente di lavoro neutro’? Vieteranno la diversità tra razze, tra colori della pelle?”. Allo stesso modo, si è dichiarata perplessa Hillary Margolis, Senior Researcher per la Women’s Rights Division dell’ONG statunitense Human Rights Watch: “Nella decisione della Corte si fa riferimento al concetto di ‘strettamente necessario’: ebbene, per un sikh o per una donna di fede islamica indossare il turbante o il velo rappresenta un atto strettamente necessario, che ha a che fare con la libertà del singolo individuo. Per questo, la decisione della Corte rappresenta un provvedimento criticabile dal punto di vista dei diritti umani, dal momento che nessuno dovrebbe essere costretto a scegliere tra la propria identità religiosa e il proprio luogo di lavoro”.

E questo vale, a maggior ragione, nel caso in cui alla base della vicenda vi sia una più o meno esplicita questione di genere: “Gli Stati europei devono finirla di esercitare controllo sulle decisioni e sui corpi delle donne. Dalla Danimarca alla Svizzera alla Polonia, nei paesi dell’Unione, negli ultimi anni stiamo assistendo al diffondersi di una pericolosa tendenza a legittimare sempre più restrizioni nella sfera personale delle donne. Questo fenomeno, recentemente, sta riscontrando una crescita preoccupante – e soprattutto dal momento in cui esponenti e partiti dell’area conservatrice hanno cominciato a guadagnare sempre più consensi in molti paesi dell’area UE. E’ preoccupante notare che, in Europa, nell’Europa della libertà e dell’uguaglianza, in realtà le donne sono sempre meno libere di vivere, vestirsi e comportarsi come vogliono. E questo riguarda tutto: il luogo di lavoro, i rapporti con il partner, la famiglia, la scuola, le istituzioni, i figli… quando la finirete di dirci come dobbiamo vivere, cosa dobbiamo pensare e come ci dobbiamo vestire?”.

Nel 2024, nel nostro mondo di diversità e contraddizioni, indossare il velo è ancora un obbligo o un divieto: quasi mai, una libera scelta.

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