Il Memoriale della Shoah ospita i profughi: quando la memoria diventa futuro

20 Ottobre 2015

Il Memoriale della Shoah di Milano ospita ogni notte, dallo scorso mese di giugno, profughi provenienti principalmente da Siria ed Eritrea, ma anche da Etiopia, Afghanistan, Pakistan, Libia, Somalia e da molti altri paesi, in transito da Milano sulla rotta verso la Scandinavia, la Germania o l’Inghilterra. A oggi ne sono stati ospitati 4500. Di tutti i profughi che passano per l’hub predisposto dal Comune sotto il tunnel di via Tonale, e gestito dalla cooperativa L’Arca, ne vengono mandati qui una quarantina per notte in base a una scelta logistica (sono per lo più persone che hanno già in mano il biglietto per partire il giorno dopo) o legata alle loro condizioni specifiche (anziani, disabili, famiglie numerose…).

Il Memoriale, inaugurato nel 2013, si trova lungo il fianco meridionale della Stazione Centrale, nel cuore della città. Da qui, fra il 1943 e il 1945, sono partiti i convogli diretti ai campi di concentramento. Due vagoni  stanno lì, a memoria di quelli che venivano stipati e sollevati fino alla quota dei binari per poi partire per i campi. Con una scelta intelligente, è stato mantenuto vuoto l’enorme, inquietante invaso che un tempo fungeva da banchina. Un auditorium, un “luogo di riflessione” e una biblioteca, quest’ultima non ancora aperta al pubblico, fanno parte del progetto.

L’accoglienza dei profughi al Memoriale è frutto di una collaborazione interessante: la Comunità di Sant’Egidio, che proprio in questi spazi fin dal 1997 organizza tutti gli anni una memoria della partenza degli ebrei molto partecipata, ha proposto a Liliana Segre, fra i pochissimi sopravvissuti milanesi, di ospitare qui dei profughi; la proposta è stata accolta immediatamente. La Fondazione Memoriale della Shoah ha messo a disposizione una parte degli spazi, mentre cura a titolo volontario l’accoglienza e la gestione. Tante altre realtà dell’attivismo civile si sono messe a disposizione: la chiesa anglicana e la comunità Lubavitch; il tempio buddista di via dell’Assunta e musulmani di seconda generazione, e poi parrocchie, scuole, scout, singoli cittadini, associazioni di migranti, in una mobilitazione civile importante, che copre la preparazione del cibo, la gestione del guardaroba, l’animazione con i bambini, l’accompagnamento presso i presidi sanitari, il raccordo con le altre strutture del territorio, la facilitazione della comunicazione con le famiglie, l’acquisto dei biglietti ferroviari, la consulenza legale, e molto altro ancora.

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Foto di Rocio Abrego

 

 

Lo spazio austero del Memoriale è stato trasformato dai disegni, dalle frasi, dai racconti dei profughi, scritti in arabo, inglese, tigrino, francese, urdu, pashtun, farsi. Scrivere e disegnare sono state due attività costanti, in questi mesi: chiunque ne abbia avuto voglia, adulti e bambini, ha trovato carta e penna, e qualcuno disposto a raccogliere la sua storia.

Adil, il giovane marocchino che lavora qui tutte le notti, ha raccolto decine di racconti, ne ha ascoltati centinaia. Aiman, di Damasco, di passaggio dopo un viaggio allucinante in vari paesi prima africani e poi europei, gli ha raccontato: “Arrivato in Italia ho preso un treno, sono andato in Svezia, ho fatto la richiesta di rifugio e presto è arrivata la risposta negativa perché in Italia mi avevano preso le impronte. Dovevano passare sei mesi prima di poter chiedere l’asilo politico in un altro paese. Mi sono spostato in Danimarca, ma quando sono andato a chiedere asilo mi hanno arrestato per 3 mesi in attesa di una risposta dall’Italia. Ho fatto appello in carcere. Mentre ero lì hanno deciso il diniego della mia richiesta, poi, per colpa del trattato di Dublino, mi hanno mandato col primo aereo a Malpensa. Appena sceso dall’aereo sono andato subito dalla polizia per fare richiesta di asilo. Hanno rifiutato senza neanche scrivere una riga… Arrivato in Stazione Centrale ho preso il primo treno per Roma pensando che, essendo la capitale, potevo essere ascoltato più facilmente per poter riunire la mia famiglia. Anche lì hanno rifiutato. Poi ho preso il primo treno per Milano, e adesso sono qui al Memoriale, e ho deciso di riprovare di nuovo in Germania”.

Aiman ha regalato a Adil un Corano che aveva ricevuto a sua volta nel carcere danese: perché il Corano non si compra, si regala.

Tante sono le storie. Un ragazzo libico ha raccontato che i poliziotti che li hanno accolti a Cagliari hanno chiesto loro i documenti, e loro dicevano che erano scappati dalla guerra, dunque non li avevano. Alla fine un bambino si è alzato e ha detto: “Io sono il mio documento”. La notte, ha continuato, avrebbe voluto avere una macchina fotografica, perché si è svegliato è ha visto che gli stessi poliziotti erano andati a fare un po’ di spesa e avevano preparato una bella cena per quel bambino.

Una notte, molto tardi, è arrivato un gruppo di donne, di cui una incinta all’ottavo mese, che durante il viaggio avevano perso i mariti: che, per fortuna, dormivano proprio a pochi metri di distanza, e le hanno riconosciute dalla voce. Ci sono bambini piccolissimi, donne da sole con tre figli, alcune anziane – soprattutto eritree – con cui è difficile parlare. Tanti lasciano scritte di ringraziamento, benedizioni, disegni di croci copte. Alcuni ospiti hanno chiesto di farsi filmare; molti invece, comprensibilmente, non vogliono essere fotografati né ripresi. Tanti di loro hanno scritto attraverso i social network dopo essere arrivati a destinazione: si va configurando man mano una mappa degli spostamenti transnazionali che sarebbe interessante rappresentare in tempo reale.

È importante che rimanga una traccia di questo passaggio, come è avvenuto grazie ai graffiti realizzati alla metà degli anni Quaranta dal pittore ebreo Zvi Miller, ospite del campo dell’UNRRA a Santa Maria al Bagno, in Puglia, poi strappati e ora esposti al Museo della Memoria e dell’Accoglienza, su un litorale che ancora oggi accoglie profughi e migranti. Perché le tracce della storia vanno preservate, ma anche coniugate al presente. Questo ci insegna l’esperienza del Memoriale, che forse dapprima con un po’ di incoscienza, poi sempre più consapevolmente, ha risposto alla domanda della città, o forse della storia, coagulando intorno a sé molte energie, facendo rivivere quegli spazi della Stazione Centrale, dando loro una seconda chance.

L’azione del Memoriale colpisce ancora di più perché si staglia contro un generale silenzio dei musei delle migrazioni e dei luoghi di memoria europei, che sembra stiano perdendo un’occasione importante per far sentire la loro voce. Negli ultimi anni si è riflettuto molto sul senso di questi luoghi e sul loro messaggio per il presente. La International Coalition of Sites of Conscience, che raccoglie, fra gli altri, musei, carceri, parchi e altri luoghi teatro eventi storici legati al tema del rispetto dei diritti umani, in ogni parte del mondo, svolge un ruolo importante nel ridefinire, spesso con fermezza, agende, missione e compito educativo, mettendo l’accento sulla necessità di occuparsi attivamente del presente (il recente “Syrian Oral History Project” ne è un esempio). Il rischio più  evidente è quello di essere solo monumenti di se stessi, di una pagina della storia che rischia di sbiadire se non la si riattualizza ascoltando incessantemente i propri tempi.

Tanti hanno parlato di un rischio di assuefazione anche per il Giorno della Memoria (il 27 gennaio), che ricorda la liberazione del campo di Auschwitz. Come evitare che questo messaggio sbiadisca, che si annacqui? Come possono i luoghi di memoria prevenire questo rischio? Forse, solo con una pratica coerente con la propria storia ma anche radicata nel presente, estrovertita, coraggiosa.

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Foto di Rocio Abrego

E allora, ci si chiede che cosa abbiano fatto i luoghi di memoria italiani ed europei di fronte alla cosiddetta “emergenza profughi”: che cosa abbiano fatto i musei delle migrazioni, i musei del mare, i centri di studio e di ricerca, i siti della coscienza dedicati al tema, tutto quell’insieme di luoghi di esposizione e di studio che stanno affinando i loro strumenti, almeno stando al numero di convegni, saggi, ricerche prodotte negli ultimi tempi. In Europa il mondo dei musei e dei luoghi di memoria (che in alcuni casi coincidono, pur essendo concettualmente diversi), infatti, si interroga da una decina di anni su come rappresentare le migrazioni in tempo reale, su come uscire dalle maglie della narrazione storica per abbracciare la velocità e la multiformità del fenomeno. Forse i selfie e i video girati dai migranti durante il viaggio sono il vero tesoro documentario dei nostri giorni, e sarebbe interessante, per i memoriali e i musei delle migrazioni, interpretarli, rappresentarli, raccoglierli in una forma di racconto non-stop, di moderno epos, aggiornabile quasi ora per ora, fuori dalla retorica dei telegiornali e dall’astrattezza del discorso politico.

Gli allestimenti, pur accurati e anche coraggiosi, del Galata-Museo del Mare e delle Migrazioni di Genova, il primo in Italia a essersi posto il problema di testimoniare l’immigrazione contemporanea, sembrano invecchiare velocemente, alla luce dell’esodo di massa degli ultimi mesi. Quelli paludati di grandi musei come il German Emigration Center di Bremerhaven fissano l’immigrazione agli anni Settanta, ricostruendo l’interno di uno shopping mall: e dopo? E anche centri minori in dimensioni e possibilità, ma all’avanguardia nei contenuti, come l’Immigrantmuseet di Farum, in Danimarca, non hanno messo in campo azioni specifiche: eppure alla luce delle recenti scelte politiche di quel paese, sarebbe stato più che mai pertinente.

Emerge uno scarto evidente fra le intenzioni e le azioni, fra le possibilità e le pratiche. Non si tratta, è chiaro, dell’accoglienza fisica e dell’ospitalità nei propri spazi (eppure: perché no?), ma di azioni mirate, proposte, scambi di competenze, messa in rete di saperi, che sono invece numerosi e vivaci negli ambienti dell’attivismo, dei makers, della grafica, della programmazione. Basti pensare alla pubblicazione di dizionari, frasari o vademecum multilingue; alla realizzazione di mappe cartacee e digitali; a workshop dentro e fuori le mura; a esperienze legate al mondo dell’informazione (come quella del quotidiano danese Information, che ha affidato per un giorno la propria redazione a dodici giornalisti rifugiati, oppure alla guida Routard gratuita) o al mondo delle ICT (a Londra si è svolta da poco Techfugees, una conferenza e maratona di hackers per progettare strumenti a favore dei migranti e per intralciare i trafficanti, mentre nascono ogni giorno piattaforme come Refugees Welcome, per l’ospitalità dei rifugiati in appartamenti privati, o come RefUnite per la riunificazione delle famiglie); al coinvolgimento della cittadinanza in azioni mirate (gli hotspot wifi portatili, le numerose esperienze di “cucine solidali” nate in tutta Europa, le mobilitazioni di interpreti, avvocati volontari e così via).

“Indifferenza”, sta scritto all’ingresso del Memoriale, per volontà di Liliana Segre. Quando lei è partita, ricorda, la città si è girata dall’altra parte; e anche al suo ritorno ha stentato a farsi ascoltare, a farsi credere, fino a tacere per anni. Ora, quell’indifferenza è diventata una vicenda di cura e di presa in carico.

La curatrice danese Jette Sandahl dice che i musei devono essere l’“autobiografia di una città”. Lo stesso deve essere dei luoghi di memoria e di coscienza: non monumenti ma scuole, non scrigni ma altoparlanti.

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Foto di Rocio Abrego

TAG: Jette Sandahl, liliana segre, Lubavitch, memoriale della shoah, milano, profughi, rifugiati
CAT: immigrazione, Storia

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