Dall’ILVA alla rete unica il disastro industriale del Paese

28 Dicembre 2022

Giorgia Meloni è arrivata al potere animata da buoni intenti che rischiano di infrangersi contro i molti vincoli burocratici interni (deep state), esterni (Comunità Europea) o contro gli scogli di avventure industriali disastrose, richiamata da lobbisti che come sirene ammaliano con il loro canto. Sirene che per il loro tornaconto portano gli sventurati che si lasciano ammaliare ad un brusco risveglio, quando all’illusione del canto si sostituisce la fredda realtà dello scoglio.

Così è stato per l’ILVA. Come si può affidare uno dei più grandi ed efficienti impianti d’Europa al principale produttore/concorrente che beneficerebbe più dal chiuderlo o dal ridimensionarlo che dal rilanciarlo? Per di più se lo ha preso in affitto e non ha ancora pagato il prezzo (1,8 miliardi), e quindi rischia poco?
Se si fosse seguito il piano di decarbonizzazione proposto da CDP-Del Vecchio-Arvedi-Jndal, l’impianto di Taranto funzionerebbe già a gas e sarebbe stato risolto il problema del dover scegliere tra la salute ed il lavoro/volumi di produzione. E invece le sirene dicevano che il piano del gas era irrealistico perché lo sosteneva il principale produttore europeo (in palese conflitto di interesse). Per la cronaca oggi tutti concordano sul fatto che questa (o l’idrogeno su cui ho qualche dubbio) sia la soluzione da perseguire. Ed invece, oggi, il problema ambientale persiste.

Oggi siamo di fronte ad un disastro industriale, con la produzione che viaggia intorno a circa 3 milioni di tonnellate, ovvero la metà di quello che occorreva ad assicurare il break even, nel momento in cui l’offerta di acciaio nel continente è crollata a causa della guerra e gli acciaieri fanno fatturato ed utili da record. E quindi l’incentivo ad allungare la crisi industriale dell’ILVA persiste. Sarebbe interessante conoscere lo stato manutentivo degli impianti e degli altoforni, visti i timori espressi dai sindacati.
E siamo di fronte anche ad un disastro finanziario, con i debiti verso i fornitori esplosi molto oltre un miliardo di euro, il prezzo per l’acquisto del ramo d’azienda non pagato e lo Stato chiamato a versare o garantire risorse finanziarie, vista l’indisponibilità di Mittal a realizzare un aumento di capitale o a modificare la governance per riflettere il diverso impegno finanziario. Come andrà a finire con un soggetto non motivato al rilancio, che non consente di cambiare le condizioni che hanno portato a questo punto, che non investe e quindi non rischia?

Le stesse sirene sono quelle che hanno spinto CDP a comprare Autostrade assieme ai fondi di private equity, con il risultato che, pur avendo CDP la maggioranza del capitale, sono i fondi a determinare le decisioni più importanti, chiedendo incrementi tariffari e mettendo paletti alle manutenzioni. Di cosa aveva bisogno il paese? Di un basso costo del capitale per spingere investimenti e manutenzioni. I fondi di private equity non sono noti per essere fornitori di capitale a basso costo, ma in compenso pagano buone commissioni. Forse per questo le stesse sirene volevano spingere CDP a vendere ad un altro fondo la partecipazione di controllo in Autostrade. Ipotesi per fortuna tramontata.
Oggi le sirene spingono per un’OPA su Telecom. Mettendo assieme investitori pubblici (CDP in primis) e privati, i famosi fondi di private equity. In questo modo risulta più semplice socializzare le perdite, lasciandole allo Stato, e privatizzare i profitti derivanti dal break-up di Telecom.

Qual è invece l’interesse del Paese? Disporre di una rete unica, efficiente e con investitori che minimizzino il costo del capitale, in modo da spingere investimenti e manutenzioni. Quindi tutte le aree nere (molto profittevoli) andrebbero messe assieme alle aree bianche o grigie (poco profittevoli o in perdita) in modo da compensare i risultati economici. Si dovrebbe avere una proprietà totalmente pubblica o parapubblica totalmente distinta dalla proprietà degli operatori di mercato, condizione essenziale per ottenere dall’antitrust europeo l’applicazione della RAB. RAB che consentirebbe di minimizzare il costo del capitale e che l’antitrust europeo non autorizzerà mai ad un’entità partecipata da soggetti speculativi.
E invece le sirene hanno interesse che le aree nere vengano cedute ad operatori privati, per speculare e realizzare ricche commissioni dalla cessione. E che i fondi partecipino alla rete unica, occasione di ulteriore guadagno commissionale. Che poi questo sia disfunzionale rispetto agli interessi del Paese, è secondario.

Un errore su questa partita, invece, può essere esiziale al Governo della Meloni. Perché una crisi di confidenza sul debito di CDP sarebbe l’inizio della fine dell’attuale Governo e di qualsiasi speranza futura di tornarvi.

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TAG: cdp, ilva, industria, politica
CAT: Grandi imprese

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