Mi ha colpito una frase di Luigi Prestinenza Puglisi, che, in una recentissima riflessione sulla decisione di Renzo Piano di regalare una idea progettuale per sostituire il ponte Morandi, scrive: Se l’Italia fosse stata un Paese civile, una settimana dopo la tragedia del crollo del ponte Morandi a Genova, una delegazione di ministri, sottosegretari e onorevoli si sarebbe recata alla sede del Renzo Piano Building Workshop, a Vesima, per chiedere all’illustre architetto di preparare nel più breve tempo possibile gli esecutivi per la costruzione di un nuovo ponte. Per due motivi. Primo: la scelta obbligata dell’affidamento diretto per l’impraticabilità di un concorso in tempi ristretti. Secondo: la chiara fama. Nessun osservatorio degli appalti avrebbe mai messo in dubbio che si trattava del più importante architetto italiano, e oltretutto genovese, quindi in grado di risolvere nel migliore dei modi il problema postogli. Renzo Piano, in questo colloquio immaginario, avrebbe dovuto rispondere dicendo che avrebbe accettato con piacere nella sua veste di architetto, ma, per convincerlo nella sua veste di senatore, il Governo si sarebbe dovuto impegnare a emanare in tempi altrettanto brevi una Legge per l’architettura composta di soli due articoli. Il primo, secondo il quale tutti gli incarichi pubblici, tranne, appunto, quelli di somma urgenza, da quel momento in poi sarebbero stati assegnati attraverso un concorso in due fasi, alla francese. Il secondo, in base al quale chi fa il progetto è anche il direttore lavori che lo realizza, assumendone gli onori e, soprattutto, le responsabilità.
Ho pensato (in maniera sparsa e poco sistemica):
A lato di tutto questo, una breve considerazione; l’urgenza è un concetto che non esiste, in architettura: o si risolvono le questioni “domani”, con prodotti esistenti sul mercato, studiati per queste situazioni, ma veramente temporanei (si può fare un discorso architettonico anche in questi casi, comunque, vedasi l’esperienza di Shigeru Ban per le calamità naturali in Giappone, per esempio), oppure tutto ciò che deve seguire un minimo iter progettuale per costruire un’opera duratura ha necessità di tempi, ristretti ma adeguati.
Chi si trincera dietro la troppa burocrazia è qualcuno che sulla burocrazia ci vive: nella nostra esperienza di studio di architettura, ogni singolo processo è rallentato non dalla burocrazia, ma dalle persone che fanno inerzia. Spesso si trovano negli uffici pubblici e sfruttano la complicanza (spesso inutile, certo) del processo per evitare di assumersi delle responsabilità e, in ultima analisi, per lavorare meno.
Decidiamo, allora, una cosa: o ogni singola opera in Italia diventa urgente, e quindi sorpassiamo le lungaggini burocratiche, o cerchiamo di snellire il processo (anche eliminando molte leggi), ma controllando -sistematicamente- chi questo processo deve far applicare.
Se l’Italia fosse un paese civile, capirebbe che è già un paese civile, il quale necessita, come tutti i paesi, di migliorarsi ed evolvere e non di continuare a piangere addosso alle proprie miserie (che hanno, in misura più o meno maggiore, tutti i paesi del mondo).
Devi fare per commentare, è semplice e veloce.
Vorrei aggiungere che sì forse l’Italia è un Paese civile (con molti miei dubbi), ma la lamentela, l’invettiva, l’odio sono piuttosto diffusi e qualcuno ci ha costruito su fortune politiche. Ogni riferimento al governo attuale è puramente voluto.
Condivido dalla a alla z! Cose simili le vado dicendo e scrivendo da decenni!
Oh yesssss !
Se l’Italia fosse un paese civile non ci sarebbero 150.000 architetti,
Se nel rinascimento l’Italia NON fosse stata un paese civile, avrebbero indetto un concorso per assegnare l’incarico della cupola del Duomo di Firenze, della Cappella Sistina, del Campidoglio, di Trinità dei Monti, di San Carlo alle Quattro Fontane, di Palazzo Tè… ma per fortuna allora capivano il valore di Brunelleschi, Michelangelo, Bramante, Bernini, Borromini, di Giulio Romano…di Leonardo. …e gli offrivano gli incarichi.