La visione assente del digitale nel contratto di governo
Da una forza politica attenta alle imprese come la Lega e da un movimento che ha fatto della Rete la sua cifra organizzativa e comunicativa, ci si attendeva un accento messo sul digitale come leva di business, di competitività e di sviluppo soprattutto in un contesto economico vocato all’export come il nostro.
La Rete invece è vista o in modo utopistico come un diritto a cui poter accedere gratuitamente o ideologicamente come una leva di democrazia diretta. La vetta più atta del contratto di governo è però data da una incomprensibile correlazione fra cybersecurity e cyberbullismo.
In un contesto culturale come quello del M5S che parte dallo scenario secondo il quale l’evoluzione tecnologica e la robotica produrranno erosione di molti posti di lavoro – prevalentemente legati all’amministrazione e alla produzione – ci si sarebbe aspettati uno sguardo più lontano di quello che affida al reddito di cittadinanza un atto di rassegnazione di fronte al futuro.
Il rischio è perdere ancora tempo in un’epoca di cambiamento in cui il tempo non ci favorisce. La nuova edizione del Desi Index – l’indice di digitalizzazione che la Commissione Europea aggiorna ogni anno – è impietoso nei nostri confronti: infrastruttura, capitale umano e digitalizzazione della PA presentano ampi ritardi ed ecco perché l’Italia è uno dei Paesi per i quali l’Ocse rileva più rischi in merito all’impatto occupazionale dell’innovazione.
Eppure ci sono tante debolezze e minacce quante opportunità legate ai punti di forza della nostra economia.
Sul piano macro, l’Inefficienza del sistema amministrativo e il gigantismo della burocrazia italiane si affiancano all’assenza di player digital rilevanti e ci espongono a debolezze fiscali e regolamentari nei confronti dei giganti americani e orientali mentre sul fronte micro, vi sono gli oggettivi limiti delle forme tradizionali della rappresentanza che rendono il tradizionale welfare state meno efficace e incisive.
Le minacce sono poi legate, sul piano occupazionale, soprattutto ad un mismatch fra competenze disponibili e competenze richieste: il 20% delle offerte di lavoro sono di difficile reperimento.
Più tecnologia può pertanto significare una “Jobless Society” o, più realisticamente, un taylorismo digitale che si traduca in stagnazione di redditi e salari e in polarizzazione della società fra professionisti super-qualificati e ad alto reddito e una vasta schiera di mestieri routinari e mal pagati.
Di fronte a questo scenario l’Italia però, con il suo sistema di distretti indeboliti, ma ancor esistenti, può innegabilmente avvantaggiarsi della tecnologia per integrare in modo nuovo le filiere e sostenerne le eccellenze rendendole se non high-tech, medium-tech.
L’opportunità di fronte a noi – con un sistema che sappia cambiare per favorire l’innovazione sul piano amministrativo, giuridico e fiscale – è rendere più competitive le nostre aziende valorizzandone le componenti adattive e creative così da produrre un impatto positivo sull’occupazione sul lavoro.
Risulteranno prevalenti i punti di debolezza o i più di forza, le minacce o le opportunità: l’innovazione – si sa – non è un pranzo di gala, ma la storia non è ancora scritta. Sta a noi piegarla a vantaggio di tutti e a ciascuno di noi: se il contratto di governo poteva essere un’occasione di definizione delle priorità, allora si è trattata di un’occasione persa.
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