La “robotica umanistica” può salvare il manifatturiero italiano

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2 Giugno 2017

“Io, robot” è il titolo di una famosa raccolta di racconti di fantascienza di Isaac Asimov. Nei racconti i robot sono quasi sempre dipinti sotto una luce positiva, tanto da essere i veri eroi (o almeno i personaggi più simpatici) dello story-telling asimoviano. “Io, robot” risale agli anni ’50. Da allora ne sono successe di cose… ad esempio, i robot non sono più tanto simpatici; anzi, sempre più gente ha paura di essere sostituita da un robot, specie se ha oltre 55 anni, o un basso livello di scolarizzazione, come di recente ha acclarato un’indagine Demos-Coop.

È pertinente che una parte della popolazione abbia paura, di fronte a un progresso tecnologico sempre più accelerato. Così accelerato da mettere in crisi persino il Legislatore. Ma fermare le dinamiche tecnologiche è difficile, per non dire  impossibile. Di sicuro a inizio ‘900 gli allevatori di cavalli e i venditori di fieno erano contrari all’ascesa dell’automobile, ma questo non riuscì a impedire il boom della motorizzazione. E d’altronde gli allevatori di cavalli esistono ancora (pochi, ma esistono), e il fieno ha ancora un mercato. La robotizzazione (inevitabile) dell’economia non è da vedersi come l’inizio della fine, ma come l’inizio di un nuovo ciclo industriale. Con i suoi pro e contro.

Per esempio, robotizzazione significa aziende che tornano a casa. Perché se i bassi salari sono un asset dell’offerta economica del Far East, allora a causa della robotizzazione quest’asset è destinato a essere meno appetibile. Come ha calcolato l’Uniclub More Backshoring, si sono verificati in Europa oltre 400 casi di rientro di manifattura, un quarto dei quali circa proprio in Italia. Né dobbiamo pensare che la creatività e il talento umani siano facilmente sostituibili, anzi. Una possibile ricetta, molto innovativa, per conciliare uomini e robot è la cosiddetta Robotica umanistica.

Per capirne di più, in vista della stesura di questo post ho fatto due chiacchiere con il professor Marco Bettiol, dell’ateneo di Padova. L’economista è un esperto di industria 4.0, innovazione digitale e robotica, ed è lui ad aver concepito il concetto succitato.

«Il dibattito sull’applicazione della robotica, e più in generale sulle tecnologie che ricadano sotto l’etichetta di industria 4.0 (ad es. internet of things, big data, stampanti 3D), è incentrato sul tema dell’efficienza e dell’aumento di scala. I robot oggi più sofisticati e facilmente programmabili rispetto al passato entrano in fabbrica per svolgere compiti sempre più complessi con l’obiettivo di ridurre gli sprechi e aumentare i volumi produttivi. In una parola: abbassare i costi. E’ quello che chiamo robotica sostitutiva: queste tecnologie prenderanno sempre di più il posto del lavoro umano, soprattutto di quello standardizzato o standardizzabile. Quest’approccio alla robotica non è però l’unico possibile. Esiste un altro modo di pensare l’impatto di queste tecnologie in ambito produttivo. Un modo che privilegia la varietà e la personalizzazione sulla quantità prodotta. Invece di far produrre al robot migliaia di prodotti sempre uguali, è possibile utilizzarlo per creare prodotti ogni volta diversi, fortemente customizzati: quello che gli ingegneri chiamano Lotto 1. Peraltro è chiaro che per raggiungere questo risultato il robot dovrà lavorare a stretto contatto con l’uomo. Un modello di robotica che porterà ad esaltare la “qualità artigianale” della produzione nel senso della capacità di interagire con il cliente finale per lavorare su misura. Da qui il nome di robotica umanistica: un robot che diventa uno strumento per dare maggiore varietà e quindi qualità alle nostre vite, lavorando in modo complementare con l’essere umano».

Nella ricerca robotica, spiega Bettiol, l’Italia eccelle. Ma, aggiunge,

«le difficoltà per il nostro paese consistono nel trasformare le idee e le innovazioni che produciamo all’interno dei centri di ricerca e dell’università in iniziative imprenditoriali in grado di commercializzare prodotti e servizi. In una battuta: facciamo molta invenzione (nel senso di scoperte scientifiche di grande rilievo) ma facciamo ancora poca innovazione (traduzione di questi scoperte in prodotti/servizi) rispetto al nostro potenziale».

Finora non sono state molte le aziende della Penisola a scommettere sulla robotica. Si tratta soprattutto di grandi e medie aziende, mentre le piccole imprese, che compongono gran parte del nostro tessuto produttivo, sono un po’ titubanti. È un peccato, dal momento che le aziende amiche della robotizzazione sono più competitive e performanti. Ma la rivoluzione della robotica è una rivoluzione a 360°, che non riguarda solo l’impresa e l’economia, ma anche la cultura e la scienza giuridica (su tutti, il tema della responsabilità dei robot: se in una “fabbrica 4.0” un robot ferisce un operaio, di chi è la colpa? Del proprietario del robot? Del controllore del robot? Del produttore del robot?). Ecco perché è il caso che la società italiana si attrezzi e in fretta.

La posta in gioco è altissima, come sottolinea Bettiol:

«La tecnologia, robot in testa, deve diventare uno strumento importante per esaltare quella che Carlo Maria Cipolla pensava essere la missione storica del nostro paese: “realizzare prodotti belli che piacciano al mondo”. L’uso della robotica potrebbe aiutarci ad aumentare la nostra capacità di offrire prodotti personalizzati, su misura, a cui aggiungere il tocco dell’artigiano per dare unicità e autenticità alla produzione. In questa prospettiva il robot può diventare un alleato prezioso della qualità artigiana tipica della aziende italiane. Il robot diventa il nuovo “scalpello” dell’artigiano. Tuttavia, non si tratta di una transizione scontata per le nostre imprese. Richiederà un forte adeguamento in termini di competenze digitali».

Competenze che, al momento, non sono diffuse tra i consociati. Urge un’azione diffusa, a partire dalla scuola, dall’università e dall’impresa. Urge agire subito, soprattutto.

TAG: innovazione, Marco Bettiol, robotica, robotica umanistica
CAT: Innovazione, Robotica

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