Lessico 2.0: il 13% delle startup ha vision, il 23% è open, il 47,5% è social

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1 Aprile 2016


Michele Barbera è il CEO di SpazioDati, startup dietro Atoka. Questo post è sponsorizzato da:

spaziodati

 

Dato che oggi è il 1° di aprile, e il sottoscritto è toscano (al pari di altri valenti membri del team di SpazioDati) oggi un breve post scherzoso vi tocca… In fondo l’ironia (e l’auto-ironia) fa bene all’anima! E dal momento che la nostra azienda è una startup, specializzata nella marketing e sales intelligence, abbiamo deciso di scegliere come oggetto del nostro post proprio lo splendido, variopinto, incasinato mondo delle startup tricolori.

Come sapete, gli startupper hanno un gergo tutto loro, a cominciare dal nome stesso con cui si identificano: startupper, appunto. Un neologismo che fino a qualche anno fa era sconosciuto alla lingua di Shakespeare, ma che oggi è presente nel Wiktionary. Ricordo ancora lo stupore di una giornalista canadese quando, intervistandoci nel lontano 2013, sentì che ci definivamo “startupper”. «Che cos’è uno startupper?» balbettò, lei che era una purista della lingua, patita di Alice Munro e Philip Roth.

La lingua degli startupper italiani, del resto, meriterebbe l’interesse di linguisti e sociologi, se non altro perché è una mescolanza originalissima di parole ed espressioni provenienti dalla scena startup americana, termini di natura tecnica o economica (spesso inglesi), neologismi strani. Esempio: dato che molti startupper hanno studiato scienze informatiche o ingegneria informatica all’università, o magari economia, non è raro sentire perle come “matchare”, “wrappare”, “benchmark”, “proxy”…

Ecco qui un breve dialogo tra un mio amico startupparo e la sua ragazza umanista, di cui sono stato ahimè testimone qualche giorno fa. Premessa: oggetto del dibattito era la possibilità di affittare una casa in una certa località marittima dell’Italia adriatica.

«Amore, quanto potrà costare un mese di casa lì?»

«Troppo, mi sa. A luglio, spannometricamente, un paio di cappa».

«Cheeeeee?».

«Non esagero. Come benchmark uso l’affitto che pagavano i miei in quella zona un paio di anni fa».

«Ma in che ca**o di modo parli te?»

Ovviamente ogni comunità ha il suo gergo, che agli esterni può suonare a tratti buffo o anche bizzarro. Il nostro responsabile media (che ha studiato legge all’università) infarcisce i suoi discorsi di “in primis”, “ad hoc”, “combinato disposto”, e anche se è un ragazzo davvero in gamba, un rara avis direbbe lui, a me un sorriso scappa sempre. Del resto il mondo è bello perché è vario, pure linguisticamente: i giuristi hanno il latino di Ulpiano, i filosofi il greco di Platone e il tedesco di Hegel, i cuochi il francese dell’haute cuisine, gli startupper l’inglese aziendal-californiano, i fan del karate il giapponese. A ciascuno il suo.

In fondo è normale che in un settore si usino parole del paese o della cultura di riferimento, specie quando si discute tra addetti ai lavori. Diverso è il discorso di chi usa un lessico specialistico o esoterico con persone del tutto ignoranti nella sua materia. Anni fa, quando ero un’anima candida con nessuna esperienza di business, mi rivolsi a un commercialista per un consiglio sul 730, e il tipo mi rispose snocciolando così tante sigle e tecnicismi che decisi di non scaricare mai più nulla per i successivi 10 anni.

Ma quali sono le parole più usate dalle startup nella comunicazione aziendale (cioè con il mondo esterno)? Abbiamo cercato di capirlo usando Atoka, il nostro strumento di marketing e sales intelligence che consente di sapere vita, morte e miracoli di 6 milioni di aziende italiane. Prima di tutto abbiamo scelto come proxy i siti web, la vera vetrina di ogni impresa, quindi abbiamo fatto una lista di parole-chiave che a noi capita di sentire spesso a meeting, convention e altri momenti di incontro & networking.

Un metodo un po’ spannometrico, forse, ma figlio della dura esperienza sul campo. Quindi abbiamo confrontato la lista con liste analoghe tratte da testate come EconomyUp per l’Italia o Forbes per gli USA. Il risultato è stato un merge, cioè un Listone, con tutte le parole-chiave da far analizzare ad Atoka. Infine abbiamo confrontato le diverse risultanze, in percentuale, tra startup innovative e aziende per così dire “normali” (prima di iniziare, nota metodologica: le startup prese in considerazione sono 3030, cioè tutte le startup con un sito web, mentre le aziende oltre 640mila, ossia tutte le aziende con un sito web su un totale nazionale di circa 6 milioni di imprese).

Il termine “startup”, per cominciare. Non vi stupirà scoprire che solo lo 0,94% dei siti delle aziende contiene questa parola, mentre quasi il 22% dei siti delle startup lo utilizza. Appena il 3% dei siti aziendali promette una “rivoluzione”, contro il 10% dei siti delle startup (eh sì, Silicon Valley docet). Si definiscono “leader” il 16% delle startup, e il 15% delle aziende; invece il termine “migliore” è preferito, seppur di pochissimo, dalle aziende rispetto alle startup: 43,51% contro 43,40% (della serie: l’autopromozione non guasta mai, né nella old economy né nella new).

“Open” appare nel 23% dei siti delle startup analizzate, mentre la percentuale è circa la metà nel caso delle aziende. Apprezzata dagli startupper è anche la parola “vision”, che sfiora il 13% dei siti; al contrario solo il 4% delle aziende la usa nel proprio sito. I termini “scalabile” e “modello di business”, tipici di qualsiasi brunch con un VC, sono usati da circa il 3% dei siti di startup, mentre sono presenti in numeri da ripresina europea nei siti delle aziende: rispettivamente 0,72% e 0,48%.

L’aggettivo “innovativo/innovativa” imperversa in più della metà dei siti di startup (54,26% per la precisione; insomma un must, come il sushi ai buffet fighetti a Milano), mentre soltanto il 23% delle aziende tricolori lo usa nel proprio sito. “Lean” e “ROI” appaiono grossomodo nelle stesse quantità omeopatiche: circa 2% e qualcosa nei siti delle startup, 0,6% in quelli delle aziende. Neanche “cloud” sta avendo questa gran fortuna, rispetto alla forte attenzione mediatica ricevuta: 14% contro 2,5%.

La parola “smart” compare nel 22% dei siti di startup, ma appena nel 5% di quelli di aziende ordinarie. “Digital” è come il nero, non andrà mai fuorimoda: fregia un terzo dei siti delle startup e il 14% dei siti delle ditte. “Agile” è una parola un po’ negletta, anche se amata dai softwaristi più incalliti: la usano il 3% dei siti di startup e l’1,3% di quelli aziendali. Si dice che i 40 siano i nuovi 30, e LinkedIn la nuova Facebook: forse quest’ultima cosa è vera, dato che il 13% dei siti di startup e quasi l’8% dei siti aziendali contiene il termine (anche se, a dirla tutta, Facebook è assai più presente: rispettivamente 30% e 23%).

“Focus” è una delle sorprese della nostra classifica apriliana, come il Sassuolo quest’anno; il 14% dei siti di startup, e il 5% di quelli delle aziende normali, lo usa. Fortissimo “social”, che è presente nel 47,5% dei siti di startup e nel 31% di quelli normali. Anche “passione” se la cava in modo egregio: il 23% dei siti di startup e il 21% di quelli aziendali lo cita. Perché nella vita, alla fine, ci vuole passione… specie se, faticosamente e tra mille difficoltà, si cerca di trasformare un sogno in un’azienda capace di fare la differenza.

Michele Barbera, autore dell’articolo, è il CEO di SpazioDati.

TAG: inglese, innovazione, Ironia, italiano, lingua, startup, startupper
CAT: Innovazione, Startup

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