Renzi chiede di più alla Ue ma il piano sui rifugiati rischia il fallimento

9 Giugno 2015

Per il presidente del Consiglio Matteo Renzi, la proposta della Commissione Europea per una redistribuzione dei richiedenti asilo, la cosiddetta Agenda europea per la migrazione, non è sufficiente. Peccato, però, che nel frattempo siano sempre in più i paesi che al contrario la giudicano del tutto eccessiva, anzi irricevibile. L’Italia, insomma, chiama ma sembra destinata ad esser lasciata sola dall’Europa: non tanto dalla Commissione, quanto dagli altri stati membri.

Più passano i giorni, più sembra consolidarsi lo scenario che vede come minimo rinviata, se non archiviata, la proposta della Commissione  – che prevede di ricollocare 40.000 richiedenti asilo (per lo più eritrei e siriani), al momento in Italia (24.000) e Grecia (16.000). Una ricollocazione obbligatoria sulla base di una chiave di ridistribuzione basata all’80% sul pil e la superficie del paese e al 20% su tasso di disoccupazione e rifugiati già presenti. E che fa, ad esempio, che la Francia si dovrebbe accollare il 16,88% dei 40.000 richiedenti asilo da spostare da Italia e Grecia (per un totale di 6.752), la Germania il 21,91% (8.763), la Spagna il 10,72% (4.288) e via dicendo.

Questo meccanismo sta facendo infuriare sempre più paesi. All’inizio si era a sorpresa opposta la stessa Francia (che però aveva mal capito il meccanismo), adesso Parigi, insieme a Berlino, dice sì ma chiede di cambiare la base di calcolo per dare più peso ai rifugiati già presenti (la Germania nel 2014 ha avuto oltre 200.000 domande d’asilo, il terzo del totale Ue, e in più ha accolto 34.000 profughi siriani negli ultimi tre anni). Francia e Germania sono delle colombe, molti altri stati Ue sono sul piede di guerra, al punto che al momento, come confermano a chi scrive fonti diplomatiche impegnate nei negoziati, «i numeri per raggiungere la maggioranza qualificata non ci sono», nonostante il sì (condizionato) di Francia e Germania, più ovviamente l’Italia, ma anche la Grecia, Malta, la Svezia. La speranza di avere un accordo entro giugno – e dunque per la stagione estiva, la più problematica sul fronte sbarchi – si affievolisce ogni ora che passa. Al punto che ora nessuno più conta su un accordo alla riunione dei ministri dell’Interno a Lussemburgo il 16 giugno. «Ci sarà solo un primo scambio di opinioni tra ministri», dice una fonte Ue.

Molti stati ricordano che al summit straordinario dei leader Ue sull’emergenza flussi migratori del 23 aprile «mai si è parlato di obbligatorietà». Anche fonti vicine al presidente del Consiglio Europeo, l’ex premier polacco Donald Tusk, parlano di una «certa forzatura» da parte della Commissione Europea. Così come vari diplomatici parlano di una gestione «avventuristica» da parte del presidente della Commissione Jean-Claude Juncker, che non si sarebbe «assicurato il terreno» con gli stati membri prima di muoversi (come faceva il suo pavido predecessore, José Manuel Barroso). La Commissione replica che si tratta dell’unica soluzione «realistica» e che non arretrerà di un millimetro.

Certo è che molte posizioni, se possibile, si stanno indurendo. Ad esempio se la Spagna all’inizio era titubante, ma criticava solo il criterio di calcolo delle quote di ricollocazione, adesso è passata in blocco nel fronte che si oppone a un meccanismo obbligatorio. Lo stesso vale per la Polonia: mai entusiasta, all’inizio era parso che Varsavia volesse tenere un basso profilo, pensando – giustamente – che un domani potrebbe ritrovarsi a gestire massicci flussi dall’Ucraina. Poi però c’è stato il voto alle presidenziali polacche, con la svolta a destra (è sorpresa stato eletto l’euroscettico e non certo filo-immigrati Andrzej Duda). E allora anche la premier di centro-sinistra Ewa Kopacz – in vista delle politiche di fine anno – ha pensato che dare via libera al piano di Bruxelles non fosse proprio un toccasana elettorale. Varsavia, pare, accetterà, e solo su base volontaria, solo richiedenti asilo tra i cristiani in fuga dal Medio Oriente. Con la Polonia e la Spagna, la pattuglia dei contrari è ora forte, i due big si affiancano ai durissimi cechi, pronti a qualsiasi cosa pur di stoppare il piano della Commissione, ma anche slovacchi, ungheresi, estoni, lituani, bulgari, finlandesi. Con loro sarebbe anche la Lettonia, che però ha il problema di avere la presidenza di turno dell’Unione fino al 30 giugno, ruolo che costringe a mostrarsi super partes. Non a caso, la Lettonia non sta facendo alcunché per facilitare i negoziati: finora solo due incontri di ambasciatori (“Coreper”), il prossimo sarà solo venerdì, a pochi giorni dalla riunione di Lussemburgo. In mezzo, zero tavoli tecnici, niente di niente. «Magari, se avessimo un testo concreto di compromesso davanti, riusciremmo a negoziare, ma così è difficilissimo», si sfoga un diplomatico. «Stanno tirando in mezzo di tutto – aggiunge – la Spagna ha messo in mezzo i suoi problemi a Ceuta e Melilla, altri dicono: ma io ho mandato un aereo a Frontex per la missione nel Mediterraneo. Roba che non c’entra nulla».

Il Lussemburgo, che avrà la presidenza di turno Ue dal primo luglio, già dà per scontato che dovrà occuparsi del dossier – a meno che, certo, non ci sia un colpo di scena (che nell’Ue è sempre possibile) al summit Ue del 25 e 26 giugno. Il Granducato, che pure non è contrario in linea di principio alla proposta della Commissione, guidata peraltro dall’ex premier lussemburghese Jean-Claude Juncker, non pare intenzionato a fare tappe forzate. «Bisogna dare tempo al negoziato – dice un diplomatico lussemburghese – non si può fare a rotta di collo. L’Unione Europea funziona così». Già, peccato però che intanto gli sbarchi continuano in massa – oltre 4.000 persone solo lo scorso week-end – e, ammesso che ci si riesca, far partire la redistribuzione a settembre-ottobre ha poco senso. Sarà una goccia nel mare.

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In copertina, Mayday ad Amburgo lo scorso (1° maggio 2015) – foto di Rasande Tiskar, (CC), da Flickr  

TAG:
CAT: Integrazione, Politiche comunitarie

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