Da YouTube a AdFly, il turboliberismo a cottimo di Internet

4 Aprile 2015

Immaginate se Marchionne pagasse gli operai di uno stabilimento della Fiat solo ed esclusivamente in base alla quantità di macchine che vengono vendute. Un incubo economico. Eppure una situazione di questo tipo sta rapidamente diventando la normalità nel mondo online, in cui collaboratori di siti più o meno importanti vengono pagati in maniera direttamente proporzionale al successo che il loro lavoro ottiene: sotto una certa soglia, non ricevono nulla. C’è però un lato positivo in questo modello economico: l’abbattimento di ogni barriera d’accesso. Chiunque può iscriversi a siti come YouTube, come Blasting News, come AdFly e guadagnare in base ai numeri conquistati dal proprio lavoro. Niente più raccomandazioni, niente più necessità di avere le conoscenze giuste, niente più organici al completo: c’è spazio per tutti. Un nuovo modello economico, iperflessibile sia dal punto di vista del lavoratore sia dell’azienda.

Da questo punto di vista, quella resa possibile da Internet è una vera rivoluzione, che ha trasformato per sempre il lavoro free lance e ha permesso a chiunque conosca bene le dinamiche che governano il mondo della rete di avere l’opportunità di mettere assieme uno stipendio in totale autonomia, gestendo le ore di lavoro come meglio crede e senza dover rendere conto a nessun datore di lavoro, almeno non nel senso classico del termine.

L’eldorado di App Store

Al di là dei casi più celebri di programmatori free lance – come può essere quello di Michael Gundlach, creatore di AdBlock, che vive delle libere donazioni di chi scarica il suo programma, la cui funzione è quella di bloccare tutte le pubblicità che compaiono durante la nostra navigazione su internet – a partire dal 2008 e per un certo lasso di tempo, l’eldorado dei programmatori che volevano farcela lavorando per conto loro era l’appena nato App Store.

Chi si ricorda di Ocarina, l’applicazione venduta a 79 centesimi che trasformava l’iPhone in un flauto digitale? O di iBeer (1,59 euro), in cui, “bevendo” dall’iPhone, la birra sullo schermo scendeva gradualmente? Programmi semplicissimi da creare per gli smanettoni dei codici, ma che hanno fruttato guadagni di tutto rispetto. L’inventore di Ocarina, l’allora 31enne Ge Wang, aveva guadagnato la bellezza di 221.200 dollari in due soli mesi. Non si sa invece quanto avesse guadagnato Steve Sheraton, il mago di professione inventore di iBeer, ma di certo non si trattava di cifre basse, dal momento che i suoi legali fecero causa alla Coors – che aveva copiato la sua app allo scopo di pubblicizzare la propria birra – per 18 milioni di dollari.

Le cose oggi sono cambiate: il mercato è saturo e le più importanti software house sono entrate nel business delle applicazioni; per chi cerca di basare il proprio successo su una semplicissima idea, a suo modo geniale, riuscire a emergere è praticamente impossibile. I numeri, d’altra parte, fanno venire i brividi: dalla nascita di App Store sono state lanciate un milione e mezzo di applicazioni. Farsi notare, ormai, è un’impresa disperata per chi non può permettersi un’adeguata promozione. Essendo così direttamente collegato alla rete, il mondo dei programmi e delle app è quello di cui si è parlato di più; quello diventato emblematico delle opportunità che internet offre a un esercito di geek in attesa di trovare l’idea giusta. Ma la verità è che la rivoluzione di internet va molto oltre e va incontro anche a chi non sarebbe mai in grado di scrivere una riga di codice.

Le star milionarie di YouTube

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Circola in rete una frase che riassume alla perfezione la situazione che si sta venendo a creare: Uber, la più grande compagnia di taxi, non possiede nessun veicolo; Alibaba, il più quotato rivenditore al mondo, non ha un magazzino e AirBnb, il più importante servizio per trovare alloggi, non possiede nemmeno una stanza. Forzando leggermente, si potrebbe dire una cosa simile anche di YouTube: il più grande servizio di video-streaming al mondo non crea nemmeno un contenuto.

A occuparsi della creazione di contenuti – al di là dei video musicali, delle clip estratte da film, dei filmati amatoriali caricati in rete e quant’altro – è un esercito di free lance che spera di trovare grazie a YouTube la via per il successo. Senza troppa originalità, sono stati chiamati YouTubers. Si tratta del fenomeno più noto di una nuova tendenza che sta pervadendo internet: chiunque può diventare uno YouTuber, non c’è una selezione da superare, non c’è bisogno di avere le amicizie giuste, non c’è un numero chiuso di persone che possono provare a sfruttare questa opportunità. Tutti possono iscriversi a YouTube, creare video e sperare di farcela. Dipende solo dalle loro idee, dalla loro bravura, dalla loro capacità di crearsi una identità digitale anche su altri canali social, dal passaparola, ecc. ecc.

Ma quanto si guadagna, nel mondo di YouTube? Gli introiti si basano, ovviamente, sulla pubblicità. Che appare all’inizio dei video di chi, grazie ai numeri conquistati, ha potuto chiedere una partnership al colosso di proprietà di Google. Una volta ottenuta la partnership (che viene concessa solo a chi rispetta determinate regole: postare video con una certa frequenza, non inserire nulla che abbia copyright, niente contenuti sessualmente espliciti, niente video presi da canali altrui), YouTube paga in media 5/6 euro per ogni mille visualizzazioni ottenute, ma è una cifra che può variare molto. In generale, comunque, significa che guadagnare qualcosa non è difficile, guadagnare tanto è invece riservato alle star, a chi ha milioni di iscritti al proprio canale e tiene incollati davanti allo schermo una marea di ragazzini.

Gli argomenti che offrono le maggiori possibilità di successo non sono molti (e infatti la concorrenza è spietata): recensioni di videogiochi fatte riprendendo le proprie partite, tutorial con consigli per truccarsi o vestirsi, e anche contenuti comici, che hanno reso YouTube una sorta di rampa di lancio per aspiranti cabarettisti.

In questo mondo, la star per eccellenza è senza ombra di dubbio lo svedese PewDiePie, che riprende le sue partite ai videogames, commentandole e recensendo il gioco con una verve caratteristica che l’ha reso il bersaglio feroce di una puntata recente di South Park. PewDiePie pubblica almeno un video al giorno, ognuno dei quali realizza come minimo un milione e mezzo di visualizzazioni. Il suo canale ha 35 milioni di iscritti e ogni anno totalizza circa 4 miliardi di visualizzazioni. I guadagni non sono per niente facili da stimare, ma secondo la piattaforma specializzata SocialBlade vanno tra i 50mila e gli 800mila dollari al mese. Troppo vago? Ci si può fidare, altrimenti, di quanto ha ammesso lui stesso: di guadagnare ogni anno circa 4 milioni di dollari.

E in Italia? Il primo problema per gli YouTubers nostrani è ovviamente la barriera linguistica, che limita fortemente la platea di potenziali seguaci rispetto ai paesi anglofoni o in cui l’inglese è masticato come una madrelingua. Ciononostante, circa una trentina di ragazzi ottengono introiti rispettabili grazie ai video postati su YouTube. Nei loro casi, però, i guadagni non sono stellari: si parla di poche migliaia di euro, quando va bene. Lo scopo, il più delle volte, è quello di usare YouTube e la notorietà lì acquisita per poi arrivare alla televisione.

Lo YouTuber più noto d’Italia si occupa di videogiochi, come PewDiePie: è Favij, ha 19 anni e soprattutto ha un milione e mezzo di iscritti al suo canale. Anche lui è elencato nella pagina di Social Blade dedicata alle star di YouTube, secondo la quale i suoi guadagni sono tra i mille e duemila euro al mese. Non male per un ragazzino di 19 anni, ma siamo lontani anni luce dagli introiti delle star internazionali. Soprattutto, se questi sono i guadagni del più seguito in Italia su YouTube, si capisce che le opportunità di vivere grazie ai video postati sulla piattaforma sono molto limitate.

Blasting News: giornalismo pagato a click

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La logica economica che sta dietro al lavoro degli YouTubers sta lentamente pervadendo tutta la rete, andando molto oltre YouTube e lambendo ogni ambito possibile. In Italia, un caso emblematico e molto interessante è quello di Blasting News. La logica è sempre la stessa, ma in questo caso è applicata al giornalismo. Un aspirante giornalista free lance può iscriversi a Blasting News e iniziare a pubblicare, senza nessuna barriera. Se poi riesce a farsi leggere, viene pagato un tot in base alle visualizzazioni. Finché il singolo articolo non arriva almeno a 150 pageviews, non viene pagato. Dopodiché inizia a scattare la monetizzazione, che in media è di 4 euro per mille pagine viste.

Per capire il meccanismo, bisogna uscire dalla logica di un giornalismo tradizionale. Su Blasting News non si scrivono articoli lunghi e approfonditi. Si scrivono invece notizie lampo, anticipazioni sulle puntate delle serie tv, pronostici dei match di serie A, sondaggi politici, ultime notizie su temi che interessano nicchie ben precise (provate a cercare “amnistia e indulto” su Google News) o che suscitano allarmismo (per esempio, l’Ebola). Insomma, per guadagnare bisogna scrivere articoli su articoli ogni giorno che passa.

Un caso emblematico è quello di Fitzwilliam Darcy, nickname dietro il quale si cela il terzo “blaster” in classifica (sì, i writers di Blasting News sono classificati in base al successo). Iscritto dal settembre 2013, ha pubblicato a oggi 4.284 news, ottenendo quasi dieci milioni di visualizzazioni. Considerando che la media dei pagamenti è di 4 euro per mille visualizzazioni, significa che in poco più di un anno e mezzo Darcy ha guadagnato circa 40mila euro. Praticamente, uno stipendio vero e proprio.

Attenzione, però, questo è il terzo classificato di tutti i “blaster” italiani, che sono ormai migliaia e la maggior parte dei quali non riesce a guadagnare un euro (ma le loro pochissime visualizzazioni, tutte assieme, sono comunque un numero importante per l’editore, per di più, ottenuto gratuitamente). Ma quali sono i modi per avere successo? La parola d’ordine è una sola: SEO (search engine optimization). Tutti i temi su cui gli autori di Blasting News spingono sono quelli che ottengono grande attenzione e che, per loro natura, suscitano ricerche su Google. Le parole chiave su cui gli autori di Blasting News puntano, quindi, sono soprattutto del tipo: “sondaggi politici”, “meteo week end”, “influenza 2.015 rimedi”, “riforma pensioni cosa cambia”, “uomini e donne anticipazioni”.

La chiave, quindi, sta tutta nelle logiche SEO. Ragion per cui Google si riempie in maniera impressionante di notizie riciclate, ripetute fino all’ossessione utilizzando i modi più furbi per attirare i lettori. Nel periodo del panico suscitato dall’Ebola, i titoli classici “da Blasting News” erano un mix di SEO e allarmismo. Cose tipo: “Virus Ebola 2014: i rischi per l’Italia”.

AdFly: come guadagnare con la pirateria

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Fin qui, si è parlato di abilità. Di creare programmi o applicazioni; di inventarsi presentatori o giornalisti (in entrambi i casi tra parecchie virgolette). Ma se c’è qualcosa che, nel bene o nel male, ha caratterizzato internet fin dai suoi esordi è la pirateria. Musica e film hanno iniziato a essere scaricati da programmi p2p non appena la velocità di connessione lo ha permesso. Col passare del tempo si è diffuso anche il download illegale di partite di calcio o di basket, di serie tv, dei relativi sottotitoli, di videogiochi, di tutto ciò che può essere caricato online e interessare chi poi lo andrà a scaricare.

Ma perché qualcuno carica in rete tutto questo materiale (peraltro compiendo il crimine di pirateria informatica e violazione del diritto d’autore)? Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, in moltissimi casi si tratta di un vero e proprio dono. Si caricano film e album su torrent per la sola volontà di condividerli con altri, che a loro volta avranno caricato o staranno comunque condividendo qualcosa.

Non tutto, però, funziona così. E un modo per guadagnare semplicemente caricando su internet materiale protetto da copyright è stato trovato. Per capire il meccanismo, bisogna partire dai moltissimi forum sui quali si possono trovare i link per scaricare ciò che ci interessa. Cliccando su questi link, però, spesso e volentieri si dovrà prima passare da un sito pieno zeppo di pubblicità, sul quale si è costretti a restare almeno cinque secondi. Dopo aver visto i vari banner pubblicitari, si sarà finalmente reindirizzati al sito sul quale è stato caricato il film o la partita che ci interessa. Grazie a questi “link ponte”, che ci costringono a vedere pubblicità, è possibile guadagnare.

Un esempio classico è quello di AdFly: un sito che abbrevia le url. Dopo aver caricato una puntata di una serie tv su un sito di “file hosting”, è possibile dare in pasto a AdFly il link ottenuto, che lo restituirà abbreviato. Andando poi a postare questo link sui forum frequentati dagli appassionati di serie tv, costringerò chi vuole scaricare, per esempio, l’ultima puntata di Game of Thrones a sorbirsi la pubblicità di AdFly.

Ogni mille visitatori, AdFly paga un tot. Si tratta di cifre diverse a seconda della nazione, ma per l’Italia, stando al tariffario ufficiale, siamo sui 2,23 dollari ogni mille visite. Poco, pochissimo. Ma tutto dipende, perché più forum frequento, più partite, film o musica posto online, più aumentano le visite. Cifre precise non è dato conoscerne, ma visti i numeri della pirateria (i principali siti di file storage ottengono insieme oltre 200 milioni di visite mensili) è facile pensare che ci sia chi guadagna cifre importanti, anche se probabilmente non uno stipendio.

E in effetti un dubbio che circola riguardo questi lavori è proprio quello relativo all’impossibilità di rimpiazzare con un servizio del genere un lavoro vero e proprio. Ma questa è un’ottica sbagliata con cui approciare la questione. Una caratteristica classica dei free lance del mondo online è sempre più quella di non fare un solo lavoro. Si può immaginare che qualcuno si stia guadagnando da vivere pubblicando video su YouTube, scrivendo articoli su Blasting News e lasciando il pc a caricare serie tv nottetempo per poi postare il link il giorno dopo sui vari forum. Spesso, il filo che unisce i diversi lavori è il fatto che siano sempre inerenti a quella che è la passione del free lance, cosa che permette di avere già a disposizione un network di amici e contatti che saranno facilmente interessati al lavoro che si sta portando avanti, sempre che sia fatto bene.

Una spietata meritocrazia

Messa così, sembra quasi non esserci un aspetto negativo: una delle barriere d’accesso storiche nel mondo free lance – le “conoscenze giuste” – è stata abbattuta. Chiunque può iscriversi e fare un tentativo. Si parte tutti con le stesse chance, a fare la differenza sarà solo la nostra capacità di capire il modo migliore per sfruttare il mezzo che stiamo utilizzando. Il tutto lavorando da casa e per il tempo che si reputa necessario. Quella che potrebbe sorgere e consolidarsi è un’economia di internet totalmente aperta, in cui ognuno può trovare la sua strada e provare a guadagnare seguendola (c’è anche chi guadagna creando BitCoin, per dire), un’economia meritocratica al 100%, priva di tutte quelle storture (prima tra tutte, le raccomandazioni nepotistiche) che esistono nel mondo del lavoro “offline”.

Ma c’è qualcosa che non torna in tutto ciò, ed è l’aspetto legato alle responsabilità (assenti) dell’azienda. Essere pagati in base ai “numeri” che si è in grado di conquistare non è solo l’apoteosi della meritocrazia, è ancor di più l’apoteosi della deresponsabilizzazione dell’azienda.

Il successo di Blasting News, per fare un esempio, non dipende dall’aver fatto scouting di giovani talenti del giornalismo, o dall’impostazione del sito, dalla campagna di lancio, dalla notorietà del brand, da nulla di tutto ciò che è sempre stato in prima linea nel determinare il successo o meno di una novità sul mercato. Dipende solo dalla capacità dei collaboratori di farsi trovare su Google o di essersi creati un network. L’azienda, messa anche al riparo dai rovesci della sorte visto che paga in base al successo, ha la sola responsabilità di retribuire (comunque poco) i propri collaboratori e di trovare inserzionisti.

Lo stesso identico discorso vale per AdFly. La società deve solo trovare inserzionisti, il successo della raccolta pubblicitaria dipenderà dalla capacità di chi utilizza questi link “ponte” di diffonderli a più gente possibile. Se la raccolta pubblicitaria va male, la responsabilità e il peso economico vengono interamente scaricati sui collaboratori: la raccolta pubblicitaria è proporzionale ai numeri, ma lo sono anche le retribuzioni dei collaboratori. Lo stesso dicasi per YouTube e per tutte le società che pagano secondo queste modalità.

È un cambiamento epocale, forse un nuovo tipo di economia che deve ancora essere teorizzato e sistematizzato. In cui le responsabilità sono solo sulle spalle del lavoratore. Che ogni giorno è spronato a lavorare di più, a trovare nuovi metodi, non sempre trasparenti, per aumentare i propri risultati. Forse siamo all’alba di una nuova economia iperliberista, ipermeritocratica e spietata.

@signorelli82

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CAT: Internet

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