Facebook e gli altri: quando combattere l’odio è anche una questione di business

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22 Luglio 2020

Odio e discriminazione trovano davvero troppo spazio su Facebook? A cosa porterà la scelta di molti brand di non usufruire della pubblicità sulla piattaforma per un po’? Andiamo con ordine. Trovare persone prive di un account Facebook è impresa ardua. Solo in Italia, il social network conta 31 milioni di utenti attivi al mese, 29 milioni da dispositivi mobili, 25 milioni attivi al giorno e 24 milioni attivi quotidianamente da mobile, secondo quanto riportato da Vincenzo Cosenza. Periodicamente, tuttavia, la società di Menlo Park attraversa fasi che definire critiche è un eufemismo e, naturalmente, non solo nel nostro Paese. Nel corso del tempo, infatti, le sono stati imputati diversi aspetti controversi, dalla facilità di diffusione di contenuti inesatti o incompleti alla gestione dei dati personali.

Stavolta l’aspetto messo sotto la lente è la proliferazione di contenuti ascrivibili al linguaggio dell’odio. Non è la prima volta che si parla dei social network per questo motivo. Non a caso molte sono le iniziative di contrasto al cosiddetto hate speech. Uno dei progetti più importanti è Parole Ostili, che mira e ridefinire lo stile con cui si sta in rete perché, come si legge sul sito web dedicato, le parole “commuovono, uniscono, scaldano il cuore. Oppure feriscono, offendono, allontanano.
In Rete, spesso l’aggressività domina tra tweet, post, status e stories.

È vero che i social media sono luoghi virtuali, ma è vero che le persone che vi si incontrano sono reali, e che le conseguenze sono reali.
Per questo oggi, specie in Rete, dobbiamo stare attenti a come usiamo le parole”. Tornando però nello specifico a Facebook, il 26 giugno scorso proprio dal suo account, Mark Zuckerberg ha scritto di essersi impegnato a rivedere le linee guida in vista delle elezioni di quest’anno. In particolare, ha spiegato che uno studio proveniente dal vecchio continente mostra che Facebook agisce più velocemente e rimuove una percentuale maggiore di cosiddetto hate speech rispetto alle altre principali piattaforme. Ha aggiunto che la società ha investito molto sia in sistemi che usano l’intelligenza artificiale sia in capitale umano, con team di revisione, in modo da poter identificare quasi il 90% di contenuti di questo tipo prima ancora che qualcuno li segnali. Ha poi proseguito. “Riteniamo che vi sia un interesse pubblico nel consentire una più ampia gamma di espressioni libere nei post delle persone rispetto agli annunci a pagamento. Limitiamo già alcuni tipi di contenuti negli annunci pubblicitari che consentiamo nei post regolari, ma vogliamo fare di più per proibire il tipo di linguaggio divisivo e controverso che è stato usato per seminare discordia. Quindi oggi vietiamo una categoria più ampia di contenuti di odio nelle pubblicità. In particolare, stiamo espandendo la nostra politica pubblicitaria per vietare le affermazioni secondo cui persone di una razza, etnia, origine nazionale, appartenenza religiosa, casta, orientamento sessuale, identità di genere o stato di immigrazione specifici rappresentano una minaccia per la sicurezza fisica, la salute o la sopravvivenza degli altri. Stiamo inoltre espandendo le nostre politiche per proteggere meglio gli immigranti, i migranti, i rifugiati e i richiedenti asilo dalle pubblicità che suggeriscono che questi gruppi sono inferiori o che esprimono disprezzo o disgusto nei loro confronti”.

Perché mai Zuckerberg ha dovuto fare queste precisazioni? Per un motivo molto preciso che porta il nome di Stop Hate for Profit, che non è solo un hashtag ma una campagna che riunisce molti brand che stanno sospendendo la pubblicità sulla piattaforma di Menlo Park. Il 17 giugno è stato chiesto alle aziende di attivarsi contro odio e disinformazione sospendendo le pubblicità su Facebook e Instagram per spingere la società a prendere dei provvedimenti. Tra questi: assicurare il rispetto dei diritti civili, garantire maggiore trasparenza sui controlli, individuare e rimuovere gruppi basati su violenza, negazionismo, antisemitismo, ecc, attivare politiche di contrasto all’odio sulla piattaforma oppure fare in modo che chi è oggetto di discriminazione online, possa interagire con un operatore di Facebook in tempo reale. Nonostante la risposta di Zuckerberg, le aziende che hanno aderito alla campagna stop hate for profit sono tante e note, basti pensare che tra queste ci sono The North Face, Adidas, Unilever, Honda, Levi’s, solo per citarne alcune.

Quali potrebbero essere gli effetti di condotte del genere? Sul piano economico, Pier Luca Santoro ricorda che una considerevole parte delle entrate pubblicitarie di Facebook proviene da piccole e medie imprese, quindi per intaccarne i profitti bisognerebbe vedere molti soggetti coinvolti per un periodo di tempo lungo. Inoltre, proprio le piccole imprese potrebbero investire più denaro nelle inserzioni pubblicitarie su Facebook e compensare, in questo modo, l’assenza di grandi brand. Cosa dobbiamo aspettarci, invece, sulle politiche del popolare social network?

Una prima risposta arriva direttamente da Sheryl Sandberg, direttrice operativa della società di Menlo Park, con la pubblicazione del terzo rapporto sui diritti civili di Facebook, al termine di una revisione biennale indipendente. Sandberg sottolinea diversi aspetti, tra i quali le maggiori competenze acquisite in tema di diritti civili, la possibilità di avere informazioni accurate e in tempo reale sui post relativi al voto, il coinvolgimento del 30% in più di perone di colore in posizioni di comando tra i propri dipendenti, investimenti per favorire le iniziative imprenditoriali da parte di persone di colore. In breve, molti progressi fatti ma ancora una lunga strada da percorrere, potrebbe essere la sintesi. Non è la prima volta che Facebook affronta critiche e polemiche, eppure resta sempre in cima tra le piattaforme più usate, sarà così anche stavolta

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