10 giugno 1979, il mio primo voto e le prime elezioni europee

26 Maggio 2019

La mattina del 10 Giugno 1979 mi alzai molto presto, misi la cravatta che all’epoca per un diciottenne era un atto anticonformista contro gli eskimo e le Clark scamosciate portate con effetti devastanti anche d’estate, attesi sotto casa che una 500 guidata da un comunista bresciano, segretario di sezione, mi passasse a prendere e mentre per le strade cittadine la domenica deserte parlavano di Gianbattista Vico, io da laico repubblicano e lui da marxista operaio andavamo a fare il nostro “dovere”. Il 4 giugno si erano celebrate le elezioni politiche e per il governo era aria pesante ma quella mattina arrivammo alla scuola di Viale Piave dove lui rappresentava il Partito e io per la prima volta non solo votai ma feci anche lo scrutatore: non per la paghetta ma perché si votava per l’Europa. Fu l’unica volta che passai un week end contando schede, non lo feci la settimana prima, ma era la prima volta che nella storia del mondo si tenevano elezioni internazionali e io volevo esserci non solo per votare ma in qualche modo per “servire” con un piccolo atto, una individuale testimonianza quell’Europa che altri avevano faticosamente costruito.

Era l’Europa dei Nove, o meglio delle nove democrazie, dei nove paesi vinti o vincitori del ’45 sulle cui spalle poggiava la nuova storia europea: della moneta unica e della libera circolazione delle persone ancora nulla si profilava all’orizzonte ma rimaneva nella determinazione quasi sovrumana di giganteschi gruppi dirigenti politici ed economici di quegli anni: non erano santi, non erano infallibili, non erano guidati da Dio ma avevano una visione politica e una missione da compiere consci dei disastri di qualche decennio prima.. Mancavano paesi che se uno ci pensa rivede nella memoria le immagini tragiche o sorprendenti in bianco e nero dei telegiornali e, se più giovane, guarda una cartina delle democrazie e dell’Europa in cui si viaggia con la carta d’identità incomprensibilmente monca: mancava la Spagna ancora nella transizione post franchista, mancava il Portogallo da poco protagonista della Rivoluzione dei Garofani, dove un colpo di stato militare portò la democrazia, mancava la Grecia che usciva dalla Dittatura dei Colonnelli. Mancava l’Austria, nazione vinta e non allineata. Scoprimmo anche che si votava in Groenlandia e che la Danimarca confinava col Canada.

La notte si contarono le schede sotto l’attenzione occhiuta dei rappresentanti di seggio dei partiti ai quali venivano portati, con nostra invidia da poveri scrutatori, panini e caffè e pronti coi gettoni telefonici a chiamare la sede provinciale per dare i primi numeri, ma alla fine noi italiani eravamo orgogliosi perché l’85% del Belpaese infilò la scheda nell’urna contro una media europea del 62%.
Quell’anno vinsero i socialisti ma tanti, circa il 20% e più dei deputati, erano o euroscettici o dichiaratamente nazionalisti: ricordiamocelo quando stasera guarderemo i risultati.

L’Italia mandò a Bruxelles e Strasburgo una pattuglia pazzesca, a rileggerla: Marco Pannella ed Emma Bonino, per dire, con Leonardo Sciascia. Jiri Pelikan, esule cecoslovacco eletto coi socialisti insieme a Craxi, Strehler e Ripa di Meana. Io vidi la dolce Susanna Agnelli, Bruno Visentini, Jas Gawronsky, Pininfarina ed Enzo Bettiza con Manlio Cecovini (chi non si ricorda, cerchi le loro incredibili biografie che sono la dolorosa storia d’Italia). I comunisti se la “cavarono” con Altiero Spinelli, Berlinguer, Iotti, Pajetta e Giorgio Amendola che divenne capogruppo dei Comunisti Europei. E la corazzata democristiana ancora sotto shock dopo l’omicidio Moro mandò Benigno Zaccagnini, Mariano Rumor, Emilio Colombo, Flaminio Piccoli.

Certo, forse come Salvini essi non furono fra i maggiori frequentatori delle soffuse (felpate non riesco a scriverlo) aule parlamentari animate dalle quattro sempre sussurrate lingue dei fondatori, francese inglese tedesco e italiano. Certo, i grandi nomi servivano anche a motivare il proprio elettorato. Ma certamente era il segno che quelle elezioni avevano sì il solito provincialismo italiano ma erano anche il passaggio fondamentale per una CEE che non fosse solo un accordo economico e un facilitatore dei rapporti tra i paesi membri. Era il nucleo duro del nostro destino comune, comprese tutte le contradizioni euroscettiche decise a giocarsela “dentro” e non “fuori” dal perimetro delle democrazie.

Da domani, sappiano questi sovranisti che pensano di essere una novità, che le cose non cambieranno: quella discussione va avanti da quaranta anni e più e andrà avanti quando loro saranno spariti risucchiati dal loro fallimento. Ma non sparirà l’Europa, non possiamo permettercelo e tra dieci minuti io e i miei figli ci infileremo senza esitazione di voto nelle aule del mio Liceo Ginnasio Arnaldo, dove nacque la gran passione di quegli anni e dove ho ancora la fortuna e il privilegio di tornare e rinnovare quell’impegno.

TAG: europa
CAT: Istituzioni UE

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