Dalla Francia una lezione ai “brexiter”
La reazione dei britannici alla vittoria di Emmanuel Macron in Francia tradisce la grande confusione in cui si è andata a infilare la politica di Londra con l’affaire Brexit.
Tanto i giornali conservatori (come il «Telegraph», lo scandalistico «Daily Mail», il «Sun») e gli ambienti dei più radicali “brexiter”, quanto le testate europeiste (dall’«Independent» al «Guardian») hanno sottolineato che la vittoria di Macron complicherà la posizione della Gran Bretagna in vista delle trattative su Brexit. L’assunto è abbastanza evidente: l’europeista Macron, sostenitore di un rafforzamento dell’Unione Europea, ha più volte sostenuto la posizione negoziale di Bruxelles, che in questa fase preliminare delle trattative è piuttosto dura verso Londra. Gli spazi per ammorbidirla dunque dovranno essere compatibili con gli interessi dei paesi europei, e non derivare da un cedimento strutturale della solidarietà europea.
Il Regno Unito in questa fase ha ben poche carte in mano, disponendo a differenza dell’UE di scarse misure ritorsive da opporre nel caso di un inasprimento delle trattative, o di un loro fallimento. La politica estera di Londra è sempre stata, soprattutto nel corso dell’Ottocento, volta a un controllo esterno dell’Europa e dei suoi equilibri, giocando tra isolamento e interventismo, nella logica della preservazione della stabilità continentale, principale condizione per la supremazia commerciale britannica. Alle spalle, il Regno Unito si poteva giovare di un impero coloniale e di un incontrastato dominio sui mari.
I sostenitori della Brexit hanno vinto rievocando questa epopea imperiale e sostenendo che, libera dal «giogo» europeo, la Gran Bretagna potrà tornare ai suoi antichi fasti. Si sono dimenticati di dire che il declino inglese era cominciato molti anni (per alcuni versi decenni) prima dell’ingresso nella Comunità europea nel 1973, e che proprio l’adesione all’Europa ha risollevato le sorti dell’isola dopo una crisi che sembrava senza sbocchi. Oggi, con un Commonwealth i cui principali membri hanno da decenni rescisso i legami privilegiati con l’ex madrepatria, spesso allacciandone di nuovi proprio con l’UE (è il caso del Canada), con una potenza militare ancillare rispetto agli USA e comunque non comparabile con quella ottocentesca, Londra ha rovesciato la sua storica visione d’Europa: nonostante le dichiarazioni di circostanza della premier Theresa May, l’obiettivo esplicitato dai “brexiter” più estremisti (da Nigel Farage alle componenti più radicali dei Tories) è la fine dell’UE stessa, il caos al posto del tradizionalmente ricercato equilibrio. Solo così il Regno Unito potrebbe intavolare trattative commerciali bilaterali che non lo escludano dai mercati europei, o non lo includano a condizioni sgradite a Londra. «Vaste programme», avrebbe detto il gen. De Gaulle: finora May è riuscita a incontrare soltanto i sauditi ed Erdoğan, a ricevere vaghe promesse da Trump, mentre l’India ha espresso interesse per un futuro trattato commerciale bilaterale, a condizione però che il Regno Unito allenti le politiche dei visti e faciliti l’ingresso degli indiani. Ma la Brexit aveva proprio nella chiusura delle frontiere il suo principale obiettivo a breve termine.
I “brexiter” non hanno tenuto conto del fatto che per gli europei l’UE è un progetto politico, il cui principale successo è l’aver preservato a lungo la pace, dopo secoli di guerre sanguinose, e l’aver costruito uno spazio di solidarietà e di reciproca tutela. Non è un caso che Macron abbia celebrato diversi eventi della sua campagna presidenziale nei luoghi delle guerre e delle principali tragedie vissute dai francesi negli anni in cui gli europei erano divisi e in conflitto, per ricordare ai francesi cosa significhi tornare indietro (Jean-Marie Le Pen l’ha sprezzantemente definito «un giro dei cimiteri, di cattivo presagio per lui»).
Il commercio – unica ragione per la quale la Gran Bretagna elemosinò per quindici anni l’ingresso nella comunità europea – è solo uno degli strumenti dell’integrazione e della pacificazione. Gli europei, delusi dal recente corso europeista, sono tutt’altro che propensi a buttar giù tutta l’impalcatura, come dimostrano le elezioni in Austria, in Olanda e ora in Francia, che hanno visto la sconfitta dei movimenti razzisti e nazionalisti: naturalmente spetta ai governi europei e a Bruxelles recepire le istanze di cambiamento e prosciugare il terreno in cui prospera il nazionalismo. Ma finora, l’insegnamento che i “brexiter” possono ricavare è che l’esportazione del loro modello distruttivo in Europa è soltanto un’illusione: forse la scarsa influenza culturale sui destini dei popoli europei deriva dall’incomprensione di fondo del continente, maturata in questi quarant’anni di tiepida, distaccata e utilitaristica adesione all’Europa.
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