Di cosa parliamo quando parliamo di coworking?

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26 Ottobre 2015

Citare Raymond Carver per parlare di coworking fa un certo effetto, eppure l’idea cardine dei diciassette racconti del grande scrittore americano, che cioè di certe cose che  esistono (e contano) si possa pensare e parlare anche se non si sa esattamente di cosa si parla, calza perfettamente anche al coworking (così come a un tema assai più evocativo e sfuggente come l’amore).

A 10 anni dalla nascita del primo coworking, correva l’anno 2005 quando un informatico di San Francisco, Brad Neuberg, mise a disposizione alcune scrivanie di casa sua per ospitare colleghi freelance, la domanda è meno peregrina di quel che sembri:  quell’intuizione, nata per soddisfare un bisogno contingente e personalissimo, nel corso di questi 10 anni è stata riscritta, copiata, hackerata ed oggi si contano oltre 3000 spazi di coworking sparsi su tutto il globo terracqueo. Nonostante ciò sono ancora relativamente pochi gli studi e le riflessioni che accendono i riflettori sul fenomeno, inteso nella duplice accezione di spazio fisico e pratica sociale.

Un modo per chiarirsi le idee, confrontandosi con chi il coworking lo vive day by day e con chi, invece, lo osserva e lo studia, sarà Espresso Coworking, la nonConferenza nazionale dei centri di coworking, che si terrà sabato 14 novembre presso Base Milano nell’ambito della Collaborative Week (7-14 novembre) , un meta evento dedicato all’economia collaborativa patrocinato dal Comune di Milano. Giunto alla quarta edizione, Espresso Coworking è infatti il principale punto di riferimento per coworking manager, studiosi e semplici coworkers che vogliano capire proprio… di cosa parliamo quando parliamo di coworking.

Perché in effetti parliamo di tante cose, anche diverse tra loro, anche difficilmente riconducibili a un minimo comune denominatore. Parliamo certamente di sostenibilità, nella triplice accezione sociale, economica e ambientale, ovvero della capacità dei centri di coworking di attrarre sufficienti risorse che ne garantiscano la sopravvivenza (primum vivere, deinde…). Parliamo, quindi, di business model, interrogandoci se esistono dei modelli di business condivisi e in qualche modo certificati che al coworking affianchino anche gli altri spazi collaborativi (social street, fablab, makerspace, orti sociali ecc ecc). Parliamo di community, ovvero di come l’insieme delle persone che vivono e animano uno spazio di coworking costituisca un qualcosa in più, e di diverso, dalla mera somma delle parti (no gioco a somma zero).  Parliamo di impatto sociale e di come si possa misurare tale impatto sul territorio e all’interno di comunità ormai slabbrate e impoverite da 8 anni di crisi economica ininterrotta. Parliamo del ruolo della Pubblica Amministrazione come interlocutore privilegiato e (potenziale fattore) abilitante delle comunità collaborative.

Ma parliamo soprattutto di Luigi, Stefania, Matteo, Sabrina, Francesca, Giulia, Alessandro, Kalid, Jan, Martino, Giulio, Giorgio e delle centinaia di persone che ogni giorno affollano gli spazi di coworking. Parliamo di persone in carne e ossa i loro  sogni, le loro necessità , le loro piccole e grandi sfide. Parleremo di come il coworking possa aiutare queste persone a costruirsi un lavoro che abbia e dia un senso e che costruisca le condizioni di un’inedita soggettività sociale e politica.

Sì, parliamo davvero di un sacco di cose quando parliamo di coworking. Ma soprattutto parliamo di persone, di relazioni e di legami sociali che partono dal basso per innervare le reti e le alleanze fluide e informali che costituiscono l’architettura di una comunità. Di ogni comunità. E non mi sembra poco.

TAG: community, coworking, impatto sociale, innovazione sociale, Lavoro
CAT: Lavoro autonomo, Sharing economy

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