Anche l’Italia voterebbe sì alle nozze gay (se non altro per noia sul tema)
L’Italia è ancora questa qua: il più grande e autorevole giornale liberal, il Corriere della Sera, plaude naturalmente alla svolta della cattolicissima Irlanda, sostiene anche per il nostro Paese la necessità “di una legge giusta ed equilibrata che garantisca pari diritti alle coppie omosessuali”, ma per evitare che la medesima possa cappottare in un Parlamento bigotto come il nostro, consiglia vivamente di non insistere con una rappresentazione che urterebbe le nostre coscienze, per cui – ci spiega il Corriere – “non c’è bisogno nemmeno del termine «matrimonio»”.
E invece no, caro Corriere. C’è esattamente bisogno di quella parola, modulata con la scansione precisa e orgogliosa che il momento richiede: ma-tri-mo-nio. Che paura abbiamo di un matrimonio, di uno sposalizio allegro e felice, che paura abbiamo ancora in questo Paese senza coraggio, di convolare a giuste, giustissime, nozze tra persone dello stesso sesso? Tanto per capirci e per capire le progressioni di società più decorose della nostra: le unioni civili dovrebbero semmai rappresentare una pre-condizione, quel mettere in sicurezza i diritti delle persone che è poi la radice di ogni buona organizzazione politica. Ma il matrimonio è un’altra storia. Non è la pensione di reversibilità, non è avere la mutua, tutto questo non c’entra proprio una mazza. Il matrimonio è un sogno che si realizza, è il simbolo più chiaro ed evidente che l’obiettivo è stato finalmente raggiunto, è il simbolo evidentemente laico di una conquista paradossalmente anche cristiana, perché quando si evoca la parola “matrimonio” non si può non pensare subito alla Chiesa, a una chiesa piena di fiori in cui due persone felici si dicono «Sì».
La Chiesa di Roma oggi ha preso una batosta dolorosa. Non sa che dire e le parole scelte sono confusionarie e contraddittorie, come quelle autorevoli del segretario della Cei, monsignor Galantino, il quale peraltro è testimonial perfetto di questa inquietudine quando sogna «il momento in cui tutto ciò che riguarda la persona, sia come singolo, sia come realtà sociale, venga affrontato al netto di ogni ideologia, interesse, colore partitico». Ma se davvero questo accadesse, il matrimonio gay in Italia sarebbe già legge.
Adriano Sofri si interroga su come finirebbe in Italia un referendum analogo e ne trae auspici altamente negativi. Credo abbia torto. Ma non per questioni così alte, come il confronto tra schieramenti diversi imporrebbe. No. Ho il sospetto (fondato) che moltissimi italiani, tra quelli idealmente contrari ai matrimoni tra persone dello stesso sesso, siano sfibrati da una contesa che onestamente non è (più) così appassionante. Che forse lo era un certo numero di anni fa, quando il confronto era semplicemente scontro e discriminazione, ma che via via che il tempo è passato, con un allargamento sempre maggiore delle fasce interessate, con la consapevolezza maturata su questi argomenti, con l’uscita dai ghetti e la voglia civile di definire appieno la propria identità, ecco, questo problema ha perso di peso, di emotività, di divisione ideologica nella testa di molti italiani. Che sì, pur non essendo entusiasti, si farebbero “sopraffare” da un diritto civile magari anche per noia, per un senso di stanchezza.Perché è evidente, lo si percepisce nitidamente, che più ci guardiamo intorno, più frequentiamo persone, più abbiamo socialità, più i nostri figli hanno socialità, e più la questione entrerà in noi per via naturale, omeopatica.
Qual è la vera strettoia? Il Parlamento. Che è concepito ormai come un’entità antica, vecchia, paludata, in cui le istanze arrivano forti di grandi dibattiti e lì si fermano, risucchiate da sabbie mobili partitiche, da lobby infinite che cominciano la certosina opera di distruzione. È drammatico da ammettere, ma il Parlamento ormai arranca dietro al Paese, non ne tiene più il passo, la cadenza. il ritmo sociale. Due velocità troppo diverse per potersi incontrare.
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