Bufalino, “La diceria dell’untore”.Storia d’amore tra malati di tisi

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6 Aprile 2020

Palermo 1946.

Nel sanatorio denominato “La Rocca” per tentare vanamente una sospirata guarigione erano ricoverati tutti i malati di tisi, quelli che hanno un destino irreversibile ed irriducibile: sono destinati a morire e devono essere isolati, perché contagiosi.

Il malato di tisi è consapevole di convivere con la morte, un re forestiero che viene ad abitare sotto le costole, un innominabile minotauro, a cui giorno per giorno occorre propinare in tributo una libbra di vita.

Così non c’era giorno o notte, alla Rocca, che la morte non alitasse accanto con la sua versatile e ubiqua presenza, con le sue imbellettate fattezze; ogni malato disegnava sul soffitto le insuperabili insonnie con le pantomime del desiderio; la morte era come la tagliola che mordeva il calcagno.

La partita era già perduta in partenza, la salvazione non c’era.

La Rocca, con tutti i suoi annegati vivi, provocava lo sconforto del cuore, la chiara e bronzea consapevolezza che il duello con la morte sia impari, che il solitario lo stai perdendo,  che la guerra già conosce il suo vincitore. La Rocca, quel sanatorio, sprofondava nella tenebra come in una coltre di pace; era come una vecchia nave in disuso sul dosso del monte. Il   sonno di malati di tisi era rotto da scoppi rauchi che da una corsia all’altra, da una branda all’altra, si rispondevano fraternamente: latrati di cani amici nella paura della campagna di notte.

I malati di tisi come un  fuoco che li spingeva, nelle prime ore dell’alba, in pigiama com’erano, scendevano in giardino per piangere finalmente da soli, con la guancia premuta contro la spalliera di una panchina; venivano colti con le loro facce malrasate, dall’inondarsi fulmineo del mondo e facevano correre la fantasia nell’ascoltare un fischio di treno addolcito dalla distanza, oppure il cigolio dei carri di zolfo in fila per la collina . Che cosa racconta un treno, un carro che va, fra bivacchi e lune sull’aia, lungo profumi d’aranci e paesi, in una notte d’estate? Non vi era  altra vacanza se non di sorprendere, al séguito di quelle ruote, qualche guizzo di vita durante la via: un vecchio che prende il fresco, due teste che si parlano sotto il lume della cena.

Quei malati immaginavano la vita: fantasticavano, non costava nulla un bottino di nuvole, l’unico che la sorte non aveva facoltà di vietare.

E questo era bello: andarsene così a spasso per montagne e pianure, clandestini senza biglietto, contrabbandieri di vita. Almeno finché la babilonia della luce non fosse tornata a proclamare sui tetti, per chi se ne stava dimenticando, che un altro giorno aspettava dietro l’angolo, con la sua razione infallibile di dileggio e di pena.

E sarebbe stato un giorno di meno, uno dei pochi rimasti.

La stessa cosa, più grigiamente, dicevano i rumori del risveglio che si assaporavano consunti:lo scorrere su e giù della spranga nell’anello della porta carraia; la frenata del furgone del latte sulla ghiaia del viale; l’incespicare del carrello con le siringhe davanti all’infermeria. E ciascuno di questi avvisi, così aspettato com’era, sembrava scandire i tempi di una morte impellente o di prossimo futuro, uno sfratto senz’appello per ribadire lo stigma per colpa di un esilio da questa vita ineluttabile.

Quei malati di tisi erano come una setta di sbandati che imparavano la morte degli altri, come se fosse la propria. “Dunque come dimenticarsene, dei compagni d’allora, se in ognuno mi riconosco e mi chiamo, se è mio ogni petto entro cui uno spettro di foglia solennemente si oscura?”

Tra di loro vigeva un patto assoluto, irrefutabile: tutti dovevano morire, nessuno escluso.

Adelmo,un bimbo che chiedeva racconti di favole e dolciumi, cercava stelle in cielo con filanti d’oro. Pensava di guarire con il chinino, ma rimase deluso e, prima di lasciare questo mondo, si voltò dall’altra parte senza più parlare,buttando un’occhiata di debole astio.

Angelo diceva che la morte è un paravento di fumo fra i vivi e gli altri. Basta affondarci la mano per passare dall’altra parte.

Alla Rocca come cascami della storia, uno sfrido umano, giungevano i malati di tisi; da ogni parte ma con una comune ed uniforme caratteristica:arrancare per le scale, senza fine, contare ansimanti  ogni pianerottolo col respiro sempre meno capace.

Con svigorito calore, si moriva a rate.

Se si tornava, ma per poco, nei paesi d’origine all’apparire di un malato di tisi, gli altri si scostavano: erano come lazzaroni ossuti, innamorati di una vita senza scampo.Non riuscivano neppure a portare gl’indumenti della vita borghese, su cui avevano provato poc’anzi, dubbiosamente, le liturgie scordate della vestizione, scoppiando a piangere all’improvviso nell’atto di accomodare attorno alle fosse del collo una cravatta d’altri tempi, una bianca sciarpa da ballo.

C’erano anche le donne alla Rocca con le quali si cercavano innocenti intrallazzi attraverso lo steccato d’edere e pali che divideva il parco a metà.

Ci s’intendeva prima a segni, durante la messa; si trovava poi modo, da una gronda della terrazza, di lasciare penzolare, attaccato a una funicella, un biglietto davanti a una finestra amica, nella fiducia che una mano raccogliesse l’invito. Lo si faceva anche con una rosa.

I malati di tisi si vedevano la sera alla Rocca, quando la febbre del giorno defluiva piano e nelle vene l’ambulare del sangue si faceva fradicio e lento, un battito d’acquamorta contro la riva. Sedevano allora insieme, in cerchio sul pavimento, con un’armonica, un mandolino e due tre voci spossate tentavano a malapena di canticchiare un motivo che non riusciva d’accordarsi, perché si rifiutava di appartenerli.

Se volevano una donna, dovevano attendere che tre volte di fila risultassero innocui all’analisi ; così era concesso il salvacondotto di rito e che i sensi accettassero l’alea e la ripulsione di un contatto comprato.

Andare fra la gente, giù in città, portarsi addosso il cencio del corpo.Osservare le mostre dei negozi, specchiarvi fino all’ultimo spigolo le scarnificate figure e sentire con gratitudine che nessuno se n’accorge, nessuno si volta. Era come entrare nell’accampamento nemico, travestiti da vivi.

Tra le contagiate c’era Marta, una ballerina che si esibì anche nel teatro della Rocca.

Gesualdo la chiamò le pose le mani sulla spalla e le intimò: “Devi uscire con me. Ti resta poco tempo, ci resta poco tempo. E abbiamo vent’anni.”

Alzò la fronte, senza meraviglia, non rispose ma con una camminata pigra i suoi occhi trascorsero oltre, parvero aggrapparsi a una cosa che nella stanza non c’era, si chiusero infine nell’attimo in cui uno scoppio di tosse, secco come uno sparo, la piegò in due, la sconvolse, inchiodandole sulla faccia una maschera sdrucita di vecchia. Si alzò, fuggì via, con la bocca tappata da un fazzoletto, ma, prima di spingere col gomito l’uscio, si volse un momento sorridendo, domandando con lo sguardo se di salvarla o di lasciarla in pace, di non pensarci più.

Cresceva dentro Gesualdo la passione per Marta, una malata di tisi che non si sapeva se fosse un elfo o un uccello spennato e sozzo, tanto da poter mescolare alle indiscrezioni del desiderio un’oncia di incarognita pietà.

Non si poteva togliere dalla mente di Gesualdo a dispetto d’ogni sotterfugio, quel luccichio d’affralito sorriso, se sorriso era, intravisto nell’attimo in cui s’era girata a guardarlo.

D’altronde, dopo quell’incontro non aveva più rivisto la ballerina, contento abbastanza di pascere da solo, prima d’addormentarsi, uno svago della fantasia, in cui entrambi, guariti, si baciavano davanti al mare: era un ristabilire l’equità della vita, al di qua del sipario.

Era forse restia, refrattaria ad ogni pratica amorosa.

Il sonno non viene, Marta era un’esclusa, un’anima persa: giusto la socia che serviva.

Fuggirono dalla Rocca come dei collegiali:poiché tutto era perduto, tanto valeva andarsene via in giro, fuori città, a ripassarsi con gli occhi un’ultima volta cielo, terra e mare.

Gesualdo si sarebbe salvato e perciò questo regalo di sopravvivenza gli provocava  un sentimento di scontento e di colpa, pensando  ai compagni, ai quali un’identica immunità non sarebbe stata irrogata.

Un peculio incalcolabile d’anni, se il medico non mentiva, si sarebbe aggiunto ai magri centesimi che finora stringeva nel pugno. Ma non sapeva come spenderlo, ai nuovi ricchi  capita spesso. E Marta doveva morire e ne era ineluttabilmente consapevole.

“Capiscimi: nei miliardi di secoli passati e futuri io non so trovare evento più importante della mia morte. E tutte le carneficine e derive di continenti e scoppi di stelle sono soltanto canzonetta e commedia al confronto di questo minuscolo e irripetibile cataclisma, la morte di Marta. Cosa non farei per ritardarlo di un attimo. La puttana, la spia, l’aguzzina. E chissà che non l’abbia già fatto.Pensa che nei tempi andati scomparire era il segno di un privilegio. Succedeva solo ai re, nella caligine di una tempesta”.

Si diedero ad effusioni e baci, seppur entrambi contagiati.

Gesualdo bevve, prima che le sue labbra, l’afa e l’odore del suo morbo, l’accolse dentro i polmoni con un giubilo e un grido taciuto. E una volontà di distruggere, empia e allegra, formicolava nelle sue mani, mentre cercava gli anfratti e le dune magre delle sue membra. Infuocarsi e gemere la sentiva contro di se. Come una fascina che si consuma senza fiamme, per un avvampo di dentro e si torce umanamente nell’aria.

Marta sapeva di dover morire, ma non ci voleva credere.Vaghezze e sogni voluti sul davanzale del buio.

“Ma poi è vero che dobbiamo morire? Io non ci credo sempre, specialmente la sera, prima di addormentarmi, quando faccio pace col mondo e lo saluto: buona notte, vestiti, seggiole, macchie sul muro; buona notte, tutte le cose. So in quel momento di essere al sicuro, so che mi sveglierò domani, infallibilmente, coi polmoni nuovi, netti, senza più i bachi che mi ci avete messo dentro a mangiare.”

Anche Gesualdo da quando avevo conosciuto la ballerina, si impuntigliava  a prendere sonno il più tardi possibile, piacendosi a occhi chiusi pensarla e farle domande e averne risposta. S’era affezionato ormai a queste veglie  d’amore, di ruminazioni e fantasie.Ore di una lentezza e sospensione.

“Marta? Ebbene, l’amavo, né certamente meno di quanto avessi mai amato. Ma stavolta con una vena di terrore nell’abbandono.Guardai Marta. Giaceva col lenzuolo sugli occhi: avversaria o assente. E allora tornai a stendermi lungo il suo fianco, m’assopii, la sentii nel dormiveglia rizzarsi un momento per tossire; poi curvarmisi sopra con un’asma materna,far pensare che volesse dirmi una cosa e non osasse, mentre era chiaro che non aveva altra carta, quella era l’ultima che le restava.

Ero in quello stato d’ignavia e fiducia dei sensi che suole seguire l’abbraccio amoroso: quando si vorrebbe assecondare sopra una barca la fluenza lenta di un fiume, udendo a poco a poco diradarsi sotto la camicia le intemperanze del cuore. E mi piaceva lasciarmi prendere dalla lusinga della sua voce”.

“Per questo” disse Marta “sono venuta con te stasera. Volevo andarmene dal mondo col ricordo di una carezza giovane addosso.Sono morta, un pezzetto per volta. Quel che rimane è un soffio, una brezza glaciale, un poco d’aria remota,un niente incartato in un niente”.

Gesualdo era certo che si sarebbe salvato, ma non poteva tradire il patto: tutti i malati di tisi dovevano morire insieme.Non osava parlarle delle speranze di guarigione, sia per paura che gliene venisse un moto d’invidia, sia perché avvertiva in confuso che se un filo c’era che poteva tenerla legata a se, questo era la comunanza della loro  sorte, un filo che non conveniva spezzare.

La camera della locanda dov’è si amarono nella notte che li aveva accarezzati con il suo lungo mantello era vasta, con un balcone aperto ai sussurri della campagna e al mare lontano. Marta indugiò a guardare fuori e non smetteva di offrirsi all’umidità che cresceva. Malconvinte premure, in verità.Troppo inutile sarebbe stato tenerla ancora per un dito in bilico sul discrimine mortale, col corpo intero traboccante nel precipizio.

Dalla finestra non giungeva nessun rumore, salvo uno di ruote, di tanto in tanto, sull’acciottolato. Ma un pallore d’aria entrava di striscio, debole come quello che sparge la luna prima di spuntare dalla collina. Quanto bastava perché la sua fronte, sotto l’aureola dei brevi capelli, disegnasse una pozza di chiaro dentro il nero della notte.

Parlava da sola: “Amen anche per questo, Marta, amore mio. E da domani, poi, giù buona a cuccia, a morire.” E non trattenne più i fragili meccanismi del pianto.

Tossì forte e Gesualdo fece a tempo a scorgere sul fazzoletto, che riponeva in fretta dentro la guaina del cuscino, il colore portentoso del sangue. Vi fu allora silenzio nella stanza, un sollievo e una pace che le cose, intorno, non posseggono più: impazzisce il cielo negli occhi dei volatili, li vedi d’un tratto radere l’erba, precipitare.

Era chiaro dagli  occhi atterriti di Marta,dalla plumbea tinta del viso, che qualcosa era imminente, stava bussando dietro un muro. Una paratia sottile, oh quanto sottile, resisteva ancora  dentro di lei a una pressura di nascosta alluvione. Ma non c’era speranza che non cedesse da un momento all’altro. Intanto l’affanno cresceva, gli sputi sanguinosi si facevano più ricchi e frequenti, si sentiva salire alle labbra un irrefrenabile zampillo di rossa schiuma e di morte. Un sangue immenso, seminato di bollicine rotonde, le irruppe dal petto e allagò le lenzuola, enfatico, esclamativo.

Era  morta.

Le cateratte del diluvio di Dio rombavano. Che rotonda moneta, lassù, la luna.

Gesualdo guarì, perché doveva essere testimone.Sentiva dalla sua stanza la pioggia battere nella campagna umida ed il profumo dell’erba bagnata che inondava l’area.Restava fuori con il capo a sentire scrosciare la pioggia che gli cadeva addosso,come la guarigione che era venuta,come la liberazione dalla malattia, dalla peste.

“Come tutte le grandi pesti, anche questa infima mia finiva con una pioggia. In compagnia dell’acqua che mi colava dai capelli e mi rigava le gote, il male si scorporava da me, se ne andava. Io avevo compiuto un viaggio, un viaggio importante, ma ora era difficile capire se fra gli angeli o sottoterra; e se ne riportavo un bottino di fuoco o solo un poco di cenere sotto grigi bendaggi di mummia”.

Per questo era stato concesso l’esonero; per questo si era salvato dalla falcidia,per rendere testimonianza se non delazione di una retorica e di una pietà e portare sotto la lingua una diceria, da raccontare ad una prossima chiamata alle soglie della notte.

TAG: coronavirus, Gesualdo Bufalino, La diceria dell'untore, letteratura
CAT: Letteratura

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