«Voglio una vita maleducata, di quelle vite fatte così. Voglio una vita che se ne frega, che se ne frega di tutto sì. Voglio una vita spericolata, di quelle che non dormi mai».
Henry Charles Bukowski, detto Hank, avrebbe apprezzato molto, se l’avesse conosciuta, questa canzone di Vasco Rossi.
Nato cento anni fa, il 16 agosto 1920, ad Andernach, in Germania, Bukowski è stato sicuramente il più “spericolato” e “maleducato” scrittore del Novecento.
Figlio di un ex artigliere delle truppe americane, Charles non saprà mai parlare una parola di tedesco, perchè lascia la Germania a tre anni, quando la sua famiglia si trasferisce a Los Angeles (visiterà la sua città natale a pochi anni dalla morte, stupendosi costantemente del fatto di essere diventato una star nel suo paese natale).
È un ragazzo chiuso e confuso, in continuo conflitto con il padre. È complessato ed infelice per il suo aspetto. Da piccolo lo deridono per il suo accento vagamente teutonico, da adolescente per il corpaccione sgraziato e la faccia butterata. Passa i primi anni di vita sulla difensiva. E sulla difensiva resterà fin quasi alla fine. A tredici anni inizia a bere e a frequentare teppisti.
Nel 1938, preso il diploma, lascia la famiglia e inizia un lunghissimo periodo di vagabondaggi, lavori saltuari, alcolismo. Lavapiatti, posteggiatore, facchino. Dorme quando può e dove può, fa a botte ad ogni occasione (prendendole spesso: «Ero un buon pugile, ma con mani troppo piccole», dirà poi), finisce spesso in gattabuia per rissa o schiamazzi notturni.
Insomma, una vita che più maleducata non si può.
Ma scrive. In ogni occasione, in ogni posto, a qualsiasi ora del giorno e della notte, ma soprattutto la notte, continua a scrivere. I suoi racconti e le sue poesie cominciano ad apparire sempre più spesso nelle riviste underground. Scrive sempre, ed ossessivamente, della cosa che conosce di più: se stesso («Agli scrittori piace solo la puzza dei propri stronzi»).
Gli scontri con gli uomini, gli incontri con le donne, il vino, la birra, le corse dei cavalli, la sua scassata Volkswagen («Prendete pure la mia donna, ma non toccatemi l’auto»), i vicini di casa, i risvegli con la testa che scoppia e lo stomaco in subbuglio, le scenate, i rari momenti di languore romantico, la irresistibile voglia di provocare ed offendere, che poi imprevedibilmente lascia il posto a gentilezza e sensibilità (come se in lui abitassero, a seconda della quantità e qualità dell’alcol ingurgitato, diverse personalità). Tutto questo entra di forza nelle pagine di Bukowski e lo rende uno scrittore inimitabile.
Il sesso è raccontato in maniera cruda, meccanica, a volte comica: «Il sesso è tragicomico. Ne scrivo come di una risata sul palcoscenico, come di un intermezzo tra un atto e l’altro».
Nessuno ha la sua totale e sgradevole sincerità, nessuno si spoglia, si denigra, si commisera e si irride come lui. Nessuno come lui odia la retorica: «Se mai dovessi parlare d’amore o di stelle, uccidetemi». Nessuno più di lui disprezza i suoi simili: «Gli uomini per me sono come sassolini bianchi; anzi no, ripensandoci, i sassolini bianchi non sono poi così male».
Bukowski è un grande scrittore che è anche un grandissimo personaggio.
La scrittura è veloce, quasi sincopata, semplice, ma, pur nella semplicità, sempre feroce e corrosiva. Più le sue condizioni di vita sono squallide e precarie, più si sente ispirato: «Solo i poveri riescono ad afferrare il senso della vita, i ricchi possono solo tirare ad indovinare».
Assunto dal Postal Office di Los Angeles, Bukowski attraversa gli anni ’50 e ’60 continuando ad essere uno scrittore semiclandestino. È un autore di culto, come diremmo oggi, ma per pochissimi. Poi, un giorno, quando è già un uomo maturo, una collezione dei suoi pezzi più trasgressivi e velenosi esce in volume.
Il libro si intitola “Taccuino di un vecchio sporcaccione” ed ha un discreto successo. Prende coraggio e lascia l’ufficio postale. Ha quarantanove anni (anche se ne dimostra molti di più) ma, anche se il suo corpo è devastato da una vita disordinata e dispendiosa come poche, ha sempre più voglia di scrivere e di raccontarsi.
E più l’uomo Bukowski è distrutto e rovinato, più i suoi racconti acquistano forza e freschezza. Ha la fortuna di incontrare a quel punto un uomo che crede moltissimo in lui e nella sua possibilità di diventare uno scrittore di successo. L’uomo è John Martin. Manager di professione e appassionato di letteratura per vocazione, Martin gli offre un assegno periodico quale anticipo sui diritti d’autore e si impegna a promuovere e a commercializzare le sue opere. Il sodalizio ha un enorme successo. All’inizio soprattutto in Europa, successivamente anche in America.
Inizia il periodo dei reading poetici, vissuti da Bukowski come un incubo e raccontati magnificamente in molti racconti : «Viaggiare è una seccatura: di problemi ce ne sono sempre a sufficienza già dove sei».
Proprio durante una di queste letture, nel 1976, Bukowski conosce Linda Lee, che riesce nell’impresa di cambiargli regime alimentare e ridurgli l’alcol. Ormai lo scrittore può permettersi una villa con piscina, una Bmw al posto della Volkswagen, vino bianco di prima qualità e ristoranti di lusso. Gli ultimi anni sono vissuti in grande serenità e agiatezza.
Ma la vena creativa non viene meno. Continua a scrivere e a pubblicare fino alla fine.
Muore nel 1994.
Alla morte è dedicato uno dei suoi scritti: «Ti ho dato tante di quelle occasioni che avresti potuto portarmi via tanto tempo fa. Vorrei essere sepolto vicino all’ippodromo… per sentire la volata sulla dirittura d’arrivo».
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Immagine di copertina: Charles Bukowski, painted portrait _DDC0052; thierry ehrmann
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